Milano 1967/68: Iniziò così il movimento degli studenti

Astrolabio 1967/48 – 3 dicembre 1967

I ribelli di Sant’Ambrogio

 

Il cancelletto al portone d’ingresso, scuro con le punte d’ottone, come all’altare: normalmente ci si passa di lato, attraverso la portineria: almeno le mezze maniche per le ragazze, camicia e giacca per i maschi, anche d’estate. Guardie svizzere travestite da bidelli, metà sacrestani e metà poliziotti, controllano che nessuno fumi nei corridoi e nelle aule, che le fanciulle tengano gli occhi bassi sul loro grembiule nero, obbligatorio. Code lunghissime davanti agli sportelli delle segreterie, dalle 10 alle 12, orario improrogabile. 300 lire per ogni verbale d’esame, e l’esame, spesso, come in confessionale. Chi non ha imparato a memoria i dogmi impartitigli dall’alto della cattedra, faccia penitenza. Discussioni a bassa voce. Meglio il silenzio.

Per una decina di giorni, davanti al portone, ci sono stati i poliziotti veri, dopo aver portato fuori a viva forza i 150 studenti che il 17 novembre avevano occupato l’università. A pochi metri di distanza, dietro la basilica di S. Ambrogio, le tende tirate in piedi dagli studenti: la notte come dormitorio per i 25 espulsi dai collegi, di giorno come campo base per l’organizzazione della resistenza. Cinque commissioni impegnate per elaborare documenti il più possibile approfonditi sui problemi del loro ateneo e della vita accademica in generale: tipicità della Cattolica, diritto allo studio, ricerca scientifica, stato della didattica, democratizzazione delle strutture. Ogni giorno, assemblee di studenti sulla piazza intorno al fuoco di legna, con giovani che si avvicinavano al microfono e parlavano davanti a centinaia di compagni: interessi e principi comuni, proposte, timori, dubbi.

 

L’omelia del Vescovo. E’ proprio questo uno degli aspetti più validi di queste giornate. Il fatto che centinaia di studenti abbiano cominciato a discutere, a prendere coscienza della loro posizione in Cattolica e nel mondo universitario italiano. Che questo dialogo fra credenti e meno credenti (che pure si trovano a frequentare la Cattolica) si sia sviluppato oltre il livello di élite, che si sia realizzato di fatto in forme di azione concreta: sciopero, occupazione, resistenza attiva.

Che le cose arrivassero fino a questo punto non se l’aspettava certo nessuno. Non la gerarchia ecclesiastica, che ha cercato prima di circoscrivere gli avvenimenti nell’ambito dell'”increscioso incidente”, e poi, non riuscendovi, si è orientata verso le consuete enunciazioni paternalistiche: “Nella vostra paziente dedizione – così si esprime, rivolgendosi agli insegnanti, il Card. Colombo nella omelia pronunciata il 23 novembre – non abbiate timore di accogliere le sane esigenze dei giovani, di aprirsi ai bisogni nuovi della società in trasformazione. Non permettete che … i giovani … siano tentati dalla loro impazienza e dalla loro inerzia a travolgere anche i valori veri, i valori eterni, solo perché essi se li vedono presentati in strutture esauste e sorpassate … “. E nemmeno le autorità accademiche pensavano di trovarsi a lottare con un fronte tanto agguerrito e compatto: impiego della polizia contro l’occupazione, serrata dell’università, e poi, contro le mozioni presentate dagli studenti, espressioni di condanna per i “metodi di violenza lesivi della libertà di tutti”.

Così come non sono state in grado di prevedere un simile fenomeno, gerarchia ecclesiastica e autorità accademiche hanno dimostrato di non aver capito la nuova realtà che oggi rappresentano gli studenti della Cattolica. Quello che essi vogliono, credenti o meno credenti, è “l’inversione di una logica”, quella logica di “autoritarismo retrivo, di paternalismo conservatore, di clima medievale” (così si legge sull’ultimo numero del giornale dei giovani DC di Milano) che ha retto fin dalle origini l’università. In questo senso, gli studenti ritengono “rivoluzionaria” la loro azione di questi giorni, una rivoluzione iniziata solo da qualche mese, ma destinata a proseguire, comunque si concludano gli avvenimenti attuali, in forme sempre meno locali e settoriali.

Come nasce la rivolta. Solo fino a due anni fa, i1 sistema vigente in Cattolica era quello del più assoluto e ossequioso silenzio. Silenzio da parte di tutti, professori di ruolo, professori incaricati, assistenti, studenti, di fronte al Consiglio di Amministrazione, organo controllato dall’istituto finanziatore Toniolo, e questo a sua volta condizionato dall’Opera della Regalità (un’associazione di frati laici di cui fa parte anche il ministro Emilio Colombo). L’organismo rappresentativo studentesco poteva, al massimo, organizzare lezioni di nuoto, o distribuire buoni-sconto per i teatri cittadini. Poi, nel 1965, fu nominato rettore il prof. Ezio Franceschini, uomo della Resistenza, e si cominciò a respirare e a discorrere. E cominciarono anche i contrasti aperti. E’ del febbraio scorso la raccolta, tra gli studenti della Cattolica, di quasi mille firme da allegare a una lettera per la pace nel Vietnam, indirizzata al ministro Fanfani, lettera rimasta senza risposta. Tre mesi dopo, sul numero di maggio di Dialoghi, il giornale studentesco, appariva una pagina completamente bianca sotto il titolo “Libertà in Cattolica”; era stata censurata dal consulente ecclesiastico, in quanto “non accettabile” sotto l’aspetto religioso e morale: si trattava di un articolo sul divorzio. Beniamino Carretta, 4° anno di lettere e direttore di Dialoghi, ricevette allora la sua seconda ammonizione (la prima gli era stata notificata per aver preso l’iniziativa della lettera a Fanfani). Nello stesso numero del giornale, egli scriveva: “Un nuovo tipo di partecipazione oggi si prospetta e si rende necessario da parte degli universitari perché mutino le condizioni di adesso della nostra e di tutte le università del Paese, un tipo di partecipazione che corrisponde ai modi nuovi di partecipazione in generale dei giovani alla costruzione della società, diversificantisi da quelli tradizionali”. E ancora, dopo aver accennato alla crisi dell’università e al disagio che ne deriva: “Un disagio in cui intuiamo che il furto da noi subìto nella nostra personale crescita, a causa delle attuali condizioni di studio, è un furto che ritarda lo sviluppo collettivo, la tensione a una società nuova”. Beniamino Carretta, il giorno dopo la recente occupazione, è stato espulso dall’università con una motivazione di questo tipo: per aver gridato, insieme a molti altri, “venduto” al passaggio del rettore, e per non aver dato alcuna risposta quando il rettore gli domandò “A chi, venduto?”.

 

Una misura “dolorosa”. Ma argomenti come il Vietnam o il divorzio non avrebbero forse mai portato, da soli, alla ribellione aperta. Pur nodi di discussione vera e appassionata, erano in ogni caso motivi esterni alla vita universitaria. Il motivo vero venne il 1° agosto, quando il Consiglio di Amministrazione emise una delibera con la quale si aumentavano le tasse del 50 per cento, “allo scopo di far fronte al grave e continuo aumento delle spese necessarie per il funzionamento dell’università”. Da dove derivassero questi aumenti di spese, non era specificato, dato che i bilanci, come tutti gli altri atti ufficiali della Cattolica, non sono mai stati pubblicati. La misura presa – continuava la delibera del Consiglio di Amministrazione – “indubbiamente dolorosa”, era anche giustificata dal fatto che l’appoggio dello Stato alle università libere era del tutto insufficiente, il che si era manifestato anche recentemente “con la loro totale esclusione dai contributi per l’edilizia.”

Ma il movimento studentesco ha rigettato subito, e con vigore, un tal genere di argomentazioni. “Tutti gli studenti – scrive nel numero di settembre di Dialoghi Claudio Rinaldi Tufi – rischiano di pagare ora di loro tasca gli errori commessi nella gestione dell’università. La misura inaudita degli aumenti di tasse si collega direttamente a fatti come la creazione della facoltà di medicina a Roma, che ha generato squilibri di ogni genere nell’amministrazione”. Oltre alla sede di Roma, la Cattolica ha istituito anche, negli anni scorsi, la facoltà di agraria a Piacenza e quella di magistero a Brescia. “Nella nostra università – scrive Luciano Pero, sempre su Dialoghi – le scelte politico-economiche del Consiglio di Amministrazione sono sempre tenute segrete, non solo agli studenti, ma anche alla maggior parte dei docenti; non sono mai precedute da dibattito di nessun tipo, e qualche volta sono successivamente contestate pubblicamente solo dagli studenti. Il criterio di gestione è dunque tipicamente aziendalistico: lo studente paghi le tasse, si prenda la laurea che gli viene data w non si interessi di altro, al resto penserà il Consiglio di Amministrazione.

Contro questo tipo di logica gli studenti hanno chiesto, oltre all’abolizione dell’aumento delle tasse, il controllo sui bilanci e sugli altri atti ufficiali, passati e futuri, e la partecipazione con funzione deliberativa al Consiglio di Amministrazione: in sostanza, reali garanzie di democratizzazione nelle strutture dell’ateneo. Ma è un dialogo con un interlocutore che non vuole assolutamente sentire. Si concluderà forse con la mediazione di qualche frate laico dell’Opera della Regalità.

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Astrolabio 1968/11 – 17 marzo 1968

Università

Milano, la trincea tecnocratica

 

Il milanese medio, quello che lavora e che paga in contanti, è rimasto stupefatto: studenti che bloccano le lezioni, che perdono tempo a scazzottarsi e a rompere vetrate, che fanno accorrere decine di pullman e di pantere della polizia, nemmeno fosse una rapina a mano armata. E tutto questo nel mezzo del carnevale ambrosiano. “E’ ora di finirla” proclamava sabato grasso, a tutta pagina, un giornale della sera. Lo studente modello, a Milano, è quello della Bocconi, l’università commerciale (economia e commercio e lingue) gestita dalla Confindustria. Qui si lavora sul serio, si studia e non si discute: dalle aule, il prodotto finito passa direttamente agli uffici delle grandi aziende industriali: dirigenti dal calcolo e dalla parola facili, abituati a ricevere ordini e a sgobbare.

La struttura scolastica a Milano è molto articolata. Esistono quattro atenei, due statali (il Politecnico e la Statale) e due “liberi”, cioè privati (la Cattolica e la Bocconi). Questo fa sì che vi sia una notevole diversificazione tra i quasi 60 mila universitari milanesi, che si distinguono tra loro, oltre che per la facoltà, anche per il tipo di gestione interna dell’ateneo che frequentano.

A livello intermedio, la scuola di Stato è frequentata da circa 45 mila studenti: meno di 15 mila sono al liceo, classico e scientifico, gli altri trovano posto nei 28 istituti commerciali, industriali, professionali. Le scuole legalmente riconosciute sono una sessantina e altrettanti sono gli istituti privati autorizzati, dalle caratteristiche più varie, per materia e per censo.

 

I corsi serali. L’enorme sviluppo che hanno avuto in questi ultimi anni i corsi serali di ogni genere e grado costituisce un altro formidabile elemento di differenziazione tra gli studenti, di chiaro sapore classista. La Cattolica ospita nella facoltà di economia e commercio serale quasi 7 mila studenti-lavoratori, su un totale di 20 mila iscritti; corsi serali sono organizzati dal Comune e da enti privati in quasi tutti gli istituti tecnici, commerciali, industriali e professionali con punte di frequenza assai elevate. E’ un esercito di operai e di piccoli impiegati che si appresta, con grossi sacrifici, a raggiungere una qualificazione: “Faranno i contabili, i marcatempo alle spalle degli operai, i cani da guardia del padrone”, come si è espresso in una relazione uno studente serale dell’istituto Cattaneo.

Con questi strumenti, Milano soddisfa la sua inesauribile fame di personale specializzato. Alla testa, a fare i dirigenti, i figli di papà che hanno avuto la possibilità di arrivare alla laurea abbastanza in fretta e bene, con frequenze assidue ai corsi in università, viaggi di studio all’estero, lezioni private e così via. Poi, la massa uscita dagli istituti tecnici e gli studenti-lavoratori, bloccati su bassi stipendi mentre lavorano e in seguito, dopo la laurea o il diploma, funzionari a capo chino, facilmente integrabili. Con le occupazioni dei giorni scorsi alla Statale e al Politecnico, e nei maggiori licei di Milano, la catena di montaggio di fisici e chimici, medici, avvocati, architetti, insegnanti, tecnici specializzati ecc. si è inceppata.

 

Inizia l’agitazione. Prima occupazione a medicina, il 22 febbraio. La situazione all’interno della facoltà è ormai insostenibile: un docente e due assistenti per i 700 studenti del corso di anatomia, mentre le lezioni di biochimica si tengono in una sala cinematografica, affittata per mancanza di aule; 900 matricole si iscrivono ogni anno a medicina, ma le strutture degli istituti possono contenere al massimo 200 studenti. Così si boccia, si tenta in tutti i modi di scoraggiare la partecipazione alla vita accademica: i laureati, che nel 1960-61 erano stati 201, si sono ridotti lo scorso anno a 170. “Una università che non ha posto per i suoi studenti, – si legge nel documento di occupazione – che non insegna quello che dopo viene chiesto all’esame, che non rende medici gli stessi laureati, è una università che serve soltanto a organizzare gruppi di potere accademico e finanziario attorno ai grandi clinici”.

E’ una occupazione di lavoro, che si articola attraverso quattro commissioni: didattica, piano degli studi e rapporti con la ricerca; ruolo del medico nella società, esame della figura professionale del medico nella legislazione e assistenza sanitaria; gestione del potere; diritto allo studio. La gravità dei problemi di natura strutturale, e insieme la tipicità della materia, fanno sì che all’interno dell’assemblea non si creino gruppi ideologicamente contrapposti o prevalenti. L’analisi svolta dai gruppi di lavoro – cui partecipano anche alcuni docenti e assistenti (sono assenti, naturalmente, i grandi clinici) – da settoriale diventa sempre più generale: “Non vogliamo – si dice in un documento – diventare bravi tecnici inseriti passivamente e acriticamente in un sistema predeterminato”.

Occupata la Statale. Il 28 febbraio vengono occupate tutte le altre facoltà della Statale, quelle scientifiche di via Celoria e quelle umanistiche in via Festa del Perdono. Inizia a questo punto il lavoro dei poliziotti. A medicina e davanti alle facoltà scientifiche si tratta solo di qualche auto-spia: la rivolta dei “tecnici” non sembra destare preoccupazioni di ordine pubblico. Quello che in realtà si vuole evitare è la radicalizzazione della lotta, che paralizzerebbe l’attività degli istituti di ricerca a lungo termine, coinvolgendo così tutti i vari interessi economici (commesse industriali ecc.) ad essi collegati.

In via Festa ciel Perdono, invece, lo schieramento dei carabinieri e dei poliziotti è imponente. Qui non ci sono i grandi interessi industriali o commerciali da salvaguardare, qui ci sono i “politici”. La prima manovra è quella di far intervenire le squadre dei fascisti. Per due giorni consecutivi alcuni gruppi di contro-occupazionisti tentano a più riprese di superare i picchetti per “liberare” l’università. Il portone d’ingresso è sfasciato, vanno in briciole i vetri delle finestre, mentre si incrociano i getti d’acqua degli idranti azionati dagli occupanti. Accanto a quelli che cantano “faccetta nera” ci sono molti studenti soprattutto di giurisprudenza: questa “alleanza fra gli elementi moderati e sostanzialmente conservatori con l’estrema destra fascista” preoccupa persino la candida Stampa. I poliziotti stanno a guardare, aspettando per intervenire l’invito del rettore. Ma il disegno delle autorità accademiche è diverso. Esse puntano trasparentemente a creare una frattura all’interno del movimento studentesco, per svuotarlo e farlo quindi morire di esaurimento naturale.

 

Parla Capanna. In effetti i primi giorni di occupazione trascorrono in uno stato di estrema tensione all’interno dell’università, dove i lavori delle commissioni di studio procedono a rilento, e non vengono chiarite, di conseguenza, le tesi di lotta che le diverse correnti portano avanti. E’ forse determinante, a questo punto, l’azione mediatrice svolta da alcuni elementi aderenti all’Intesa. “E’ chiaro – dice Capanna, uno dei tre studenti espulsi dalla Cattolica nel dicembre scorso – che il movimento studentesco non si può porre come obiettivo il semplice rinnovamento delle strutture universitarie. Del piano del ministro Gui, contro cui in un primo momento ci eravamo mobilitati, ora non si discute nemmeno: il nostro discorso investe oggi, per contestarlo, il sistema stesso di cui tale piano è espressione. E’ dunque il sistema produttivo e culturale borghese l’ultima controparte del movimento studentesco. A breve termine, dunque, non si può passare attraverso una fase di contrattazione con l’autorità accademica sui nuovi modi di gestione universitaria”.

A “sinistra” di tale linea politica si pone, in costante dialettica, il gruppo legato alla rivista Falce e Martello, per il quale la lotta all’università è solo uno dei momenti attraverso cui si deve operare il completo rivolgimento della struttura borghese. In questa prospettiva, le carte rivendicative, i contro-corsi, la cogestione studentesca del potere negli atenei, si rivelano come strumenti e obiettivi settoriali e quindi facilmente integrabili, se non sono collegati in modo organico e funzionale con gli altri momenti di contestazione globale del sistema, in primo luogo con la classe operaia.

 

Sul piano operativo, una linea d’azione comune viene concordata dagli occupanti della Statale, se non altro per bloccare le ricorrenti provocazioni fasciste: si decide dunque di lasciar entrare in università gli studenti di legge. Questi, per alcuni giorni, tengono le loro riunioni separatamente, definendosi i liberatori della facoltà illegittimamente occupata; poi, dopo una serie di patteggiamenti, confluiscono tutti nell’assemblea generale, nell’ambito della quale si costituiscono come corrente moderata, “di destra”. E’ questo il primo successo, sul piano strategico, del movimento studentesco: l’autorità accademica, che aveva rinunciato a far intervenire subito la polizia, non ritiene opportuno avvalersene nemmeno ora che l’occupazione si è consolidata. Sospende quindi l’attività accademica prima per 5 giorni e poi per altri 7, dichiarandosi disposta a trattare, con tutte le componenti, per il rinnovamento delle strutture didattiche ecc.

E’ la politica del bastone e della carota, applicata in modo pressoché analogo anche al Politecnico, dove gli studenti di architettura sono di nuovo in subbuglio. Il 4 marzo essi occupano la facoltà, coinvolgendo nell’agitazione persino i colleghi di ingegneria. La reazione del rettore è immediata: 5 giorni di sospensione dell’attività accademica, per placare gli animi, per trovare il modo di trattare. La più grande industria milanese di ricerche scientifiche non deve incepparsi.

 

La sollevazione dei licei. Entrano in scena, a questo punto, gli studenti medi. Il 5 marzo, dopo una lunga assemblea, viene decisa l’occupazione del liceo Parini, già in agitazione lo scorso anno per il caso Zanzara. Il giorno seguente, anche il Manzoni, il Carducci e l’Einstein occupano gli istituti, mentre molti studenti del Berchet, del Volta, del Feltrinelli disertano le lezioni proclamando lo sciopero.

Quello che gli studenti medi chiedono è ben sintetizzato nel documento elaborato dai gruppi di studio del Parini. Partendo da alcune considerazioni di carattere generale, come il processo di selezione che la scuola opera e i vari tipi di condizionamento (socio-economico, culturale, familiare) cui è sottoposto lo studente, l’analisi si sofferma sul modo di formazione della volontà politica del sistema: “La selezione è un fatto permanente e non riducibile neppure nel caso che la classe al potere riesca a dotarsi dela scuola di cui ha bisogno: non più selettiva, ma adatta a qualificare effettivamente la quantità di forza lavoro di cui l’industria ha bisogno. Infatti, nello stesso momento in cui i piani governativi regionali prospettano una ristrutturazione della scuola in rapporto all’esigenza di ottenere una forza lavoro capace di adeguarsi ai continui mutamenti che il progresso tecnico determina, essi tendono comunque a mantenere il più possibile una preparazione settoriale, negando una preparazione umana unica e unificata. Lo dimostra la tripartizione in media superiore (istruzione classica, tecnica, professionale) con diverse articolazioni all’interno di ogni settore e i tre livelli di laurea del piano Gui”.

Posti come obiettivi del movimento studentesco in generale la effettiva attuazione del diritto allo studio (da realizzare con lo stipendio agli studenti) e la trasformazione dei contenuti culturali delle lezioni (ottenibile con l’autogoverno da parte degli studenti), vengono avanzate delle richieste immediate: 1) la riduzione dell’orario scolastico dedicato al programma ministeriale, per inserire nelle ore rimanenti corsi su temi decisi agli studenti; 2) un sistema di studio organizzato per gruppi e coordinato dall’insegnante; 3) la riduzione dei compiti a casa, per lasciare maggior tempo libero per conferenze su argomenti di carattere esterno alla scuola.

 

A queste richieste le autorità scolastiche rispondono con la polizia: la rivolta deve essere stroncata sul nascere, non c’è tempo a perdere. Così i carabinieri e i celerini, che da giorni se ne stavano a piantonare l’università, si possono ora sgranchire le gambe. Tutti i licei occupati vengono sgombrati con più o meno tempestività. Dal Parini viene portato fuori coi carabinieri anche il preside, prof. Mattalia, che si era rifiutato di far intervenire la forza pubblica e che per questo viene sospeso dall’attività.

Il giorno dopo un corteo di studenti medi invade il centro. Dimostrano per Mattalia, per la libertà nella scuola, bloccano il traffico occupando per più di un’ora la piazza dove ha sede il Provveditorato agli Studi. Poi, nel ritorno, nuova occupazione al Parini. La polizia questa volta non fa complimenti: una giovane poliomielitica viene sbalzata dalla sua sedia a rotelle, volano pugni e calci (come si conviene per tali briganti), e ne fa le spese anche un’anziana insegnante. Il 9 marzo la manifestazione in centro si ripete. Lo schieramento delle divise grigie davanti al Provveditorato è imponente, a tracolla di ognuno c’è la sacca delle bombe lacrimogene. Ma a volare sono solo le uova e le mele marce che gli studenti scagliano sui poliziotti.

Ora la situazione è al suo punto cruciale. In via Festa del Perdono, mentre si tiene il convegno dei quadri di occupazione di tutta Italia, le aule ospitano alcune assemblee di studenti medi a cui partecipano anche degli insegnanti. C’è stata persino la riunione tra un centinaio di studenti della Bocconi, che ricercano i modi per introdurre la lotta anche nell’università della Confindustria. Nell’altro ateneo libero, alla Cattolica, lo stato di tensione, mai venuto meno dopo i fatti del novembre-dicembre dello scorso anno, sta per risolversi in una nuova occupazione. Tutte le scuole sono sorvegliate o presidiate, in misura maggiore o minore, da agenti in divisa o in borghese. Sul tavolo di tutti i presidi sta in evidenza il numero telefonico della più vicina stazione dei carabinieri. L’ordine è: chiamare al primo tentativo di disordine.

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Astrolabio 1968/13 – 31 marzo 1968

La battaglia di Sant’Ambrogio

 

L’operazione di polizia scatta all’alba del 25 marzo, alle cinque in punto. I carabinieri e i poliziotti, che da 26 giorni controllavano la sede delle facoltà umanistiche della Statale, si muovono in azione combinata. Una colonna di 150 uomini, passando per una porta secondaria, si infiltra attraverso i cunicoli che si estendono sotto i portici del Filarete, mentre gli altri agenti prendono possesso dell’ingresso principale. Quindi, conversione in Aula magna: una manovra da manuale a cui prendono parte centinaia di divise grigie e nere e un vice-questore, per controllare 56 studenti, 4 assistenti e 2 professori che fanno resistenza passiva. Uno ad uno gli occupanti vengono portati fuori a braccia e identificati: l’elenco è passato alla Procura della Repubblica, che ha ordinato l’operazione in base all’art. 340 del codice penale: “Chiunque, fuori dei casi previsti da particolari disposizioni di legge, cagiona una interruzione o turba la regolarità di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità, è punito con la reclusione fino ad un anno. I capi promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da un anno a cinque anni”.

E’ il primo caso, in Italia, in cui la magistratura prende un’iniziativa del genere. L’Ateneo è sgomberato e il professor Polvani, il rettore, può riprenderne possesso senza essersi sporcate le mani. La settimana scorsa, mentre interveniva in un’assemblea per rispondere di persona agli studenti, il rettore era stato applaudito solo da quegli elementi di estrema destra che poi avevano richiesto l’azione della magistratura. Alle rivendicazioni espresse nella carta programmatica del 20 marzo (riconoscimento dell’assemblea degli studenti come organo di controllo dell’intera vita accademica, istituzione e funzionamento dei seminari, controcorsi, comitati di agitazione), egli aveva opposto vaghe promesse e proposte di tipo ministeriale. Alle 6,30 del mattino del 25 marzo, pochi minuti dopo lo sgombero cui non ha voluto assistere, il professor Polvani ha fatto intervenire gli operai e le donne delle pulizie per rattoppare le aule e lavare i pavimenti, per rimettere in ordine e lustrare la sua università. Non è ancora giorno e gli studenti messi fuori dalla Cà Granda si ritrovano coi colleghi che bivaccano davanti alla Cattolica, sgomberata anch’essa dalla polizia appena due giorni prima, alle 5 in punto del mattino. L’occupazione, proclamata il 21 marzo, si poneva ormai come l’unico strumento adatto per portare avanti alcuni obiettivi minimi del movimento studentesco, cioè la sperimentazione di nuove forme di studio e di lavoro con i professori e gli assistenti disponibili. Tutto questo, nella prospettiva di una sempre maggiore maturazione del movimento.

 

La via edificante. La reazione dell’autorità accademica era immediata e si attuava secondo i termini ormai consueti a Milano. Per prima cosa venivano mobilitati i fascisti, che alle 16 del giorno successivo penetravano nell’Aula magna frantumandone le porte, guidati questa volta da Padre Carlo, una pentola in una mano e il crocifisso nell’altra: “Dio lo vuole”. Poi, fallito questo tentativo inteso a dividere l’assemblea, era la volta della polizia chiamata dal rettore, il professor Franceschini, all’alba del 23 marzo: sfondamento della barricata alzata dagli occupanti, resistenza passiva, identificazione e sgombero degli studenti. La mattinata del 25 marzo trascorre dunque in un’atmosfera di estrema tensione in piazza Sant’Ambrogio. Di fronte alle file dei carabinieri schierati davanti ai cancelli della Cattolica un altoparlante propone alla discussione due documenti fortemente contrastanti. Nel primo si esprime la posizione delle gerarchie ecclesiastiche attraverso una lettera del cardinale Colombo: “Sono ben lontano – essa dice fra l’altro – dal disconoscere quanto, e non è poco, di doveroso, di valido, di urgente ci sia nelle esigenze proclamate dagli studenti. Tuttavia non posso lasciare i giovani nella pericolosa illusione che siano conciliabili con la legalità e soprattutto con lo spirito cristiano, di cui vogliono essere portatori, il ricorso alle pressioni di forza e di violenza e un metodo di contestazione globale, che, volendo mettere in crisi l’autoritarismo, ingenera ostilità e diffidenza verso la legittima autorità e. nell’affermazione di un’autonomia totale, rifiuta il dialogo e qualsiasi proposta di graduale riforma. Questa non è la via ragionevole ed edificante che può portare a risultati veramente positivi. E soprattutto non è questa la via cristiana”. Silenzio sugli scontri. L’altro docume11to è una lettera del prof. Giovanni Pellizzi, ordinario di Diritto commerciale, che incita gli studenti alla resistenza passiva: « Rifiutatevi ad ogni dialogo. Rifiutatevi alla collaborazione di cui le autorità hanno bisogno per Poter dire che la Cattolica è ancora un luogo di civile convivenza, non una palestra per le esercitazioni di polizia». Alle tre del pomeriggio parte da via Festa del Perdono un grande corteo. Ci sono tutti, quelli della Statale e quelli della Cattolica, gli studenti di architettura e quelli di ingegneria, i rappresentanti della Bocconi e di tutti i licei milanesi. Dopo aver percorso le strade del centro i 4000 manifestanti arrivano in piazza Sant’Ambrogio per tenervi l’assemblea generale. I ragazzi si siedono .Per terra, proprio di fronte al portone della caserma di pubblica sicurezza che s1 affaccia sulla piazza, a una decina di metri dall’Ateneo. L’assemblea, iniziata alle 18, pone un preciso ultimatum al rettore Pranceschini perché esca dall’università e parli con gli studenti. Ma i minuti passano inutilmente. Davanti al cancello dell’Ateneo i cordoni dei carabinieri si rinserrano, i poliziotti bloccano tutte le strade di accesso. L’ultimatum viene ripetuto: l’università è la sede naturale degli studenti, si aprano i  cancelli perché essi possano entrare. L agitazione aumenta. E’ ai carabinieri schierati che viene rivolto un ultimo appello perché si tolgano di mezzo: la lotta degli studenti riguarda anche loro, e i loro figli. Al primo contatto fisico risuonano i tre. s9uilli della carica. L’operazione di polizia, perfettamente predisposta, scatta, con estrema precisione.

Quella che, nel propositi degli studenti, doveva essere solo una manovra d’impatto per permettere ai colleghi di occupare la sede distaccata di via Sant’Agnese distante circa 400 metri, si risolve invece in uno scontro violento con i poliziotti armati. La prima carica travolge le ragazze che stavano sedute per terra, mentre la folla sbanda verso il fondo di piazza Sant’ Ambrogio. La lotta si fraziona in feroci corpo a corpo, molti dirigenti del movimento studentesco rimangono a terra e su di essi si a~c~niscono particolarmente gli uomini in divisa. Vengono portati in caserma, dove in nottata riceveranno il resto della « lezione ». Una seconda cari ca, presto seguita da altre, fa spostare il fronte fino a via Carducci e in piazzale Cadorna. L’istituto di via Santa Agnese, in cui alcuni studenti erano riusciti a penetrare, viene sgomberato a colpi di bombe lacrimogene. Ai piani superiori, proprio in quel momento, la televisione stava intervistando alcuni luminari della Cattolica in vista della prossima giornata universitaria : una questua, organizzata nelle chiese di tutta Italia, che frutta ogni anno preghiere e offerte per mezzo miliardo di lire. Nessun comunicato, al solito, nel telegiornale della sera su quanto è successo: nulla sugli scontri, durati più di un’ora, nulla sul numero dei feriti (una cinquantina tra i poliziotti, più di un centinaio tra gli studenti), sulla identità dei fermati (una settantina).

 

Le denunce di Franceschini. Alle nove e mezza di sera, mentre piazza Sant’Ambrogio è ancora saldamente presidiata, si svolge alla facoltà di architettura un’assemblea generale indetta dal comitato milanese di agitazione permanente. “La presa di coscienza del movimento – dice uno studente – non può avvenire attraverso i seminari o i controcorsi. E’ l’azione, la lotta politica diretta che sola ci mette a contatto con la controparte vera. Il movimento deve proporsi, quindi, un tipo di contestazione globale, articolata all’interno e all’esterno dell’università”.

Su questa linea l’accordo è pressoché completo. Si compongono, almeno per il momento, e se non altro su problemi di ordine operativo, i frazionamenti dei giorni scorsi. Le carte rivendicative e programmatiche, le varie proposte di sperimentazione didattica si rivelano ormai sorpassate alla prova dei fatti. L’assemblea si chiude a notte inoltrata, ma già il mattino successivo, il 27 marzo, gli studenti si ritrovano in una grande manifestazione in piazza del Duomo. Nei licei e negli istituti tecnici cittadini viene proclamato lo sciopero. Davanti alla Cattolica l’assemblea decide di continuare dall’esterno la lotta nelle forme e con i contenuti concordati con tutti gli altri atenei Studenti, assistenti e professori incaricati chiedono le dimissioni del rettore e del senato accademico. Frattanto i 70 fermati della sera precedente vengono rilasciati, ma su molti di loro si profila una volta di più la minaccia del codice penale. Franceschini infatti ha presentato ora alla magistratura una denuncia per istigazione a delinquere, violenza e minacce a pubbblico ufficiale, turbativa di pubblici servizi, danneggiamento aggravato all’altrui pacifico possesso ecc. contro 51 universitari.

Ma le minacce non hanno più alcun effetto. Nel pomeriggio, dopo una nuova assemblea in piazza Duomo, gli studenti effettuano una serie sit-in nei punti nevralgici della città. Il traffico viene bloccato per un paio d’ore fino alle 20,15, proprio nelle ore in cui il milanese che lavora esce dall’ufficio per tornarsene a casa. La polizia non interviene. “Sarà così tutti i giorni – annuncia il megafono degli studenti – fino a che non ci saranno restituite le università”.

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Astrolabio 1968/37 – 22 settembre 1968

Controriforma alla Cattolica

 

Gioventù, l’Italia è bella, devi farla santa”. E’ un ritornello che il professor Giuseppe Lazzati, da pochi mesi rettore della Cattolica, conosce assai bene: lo raccomandava ai giovani di trent’anni fa, come presidente dell’Azione Cattolica. “Vogliamo – scriveva su ‘Azione Giovanile’ del 25 giugno 1939 – che tale invito abbia per tutti annuncio di letizia, ebbrezza di volo come l’aquila che si affissa godendo nel sole …”.

Son cambiate le parole, ma il ritornello, a trent’anni di distanza, è sempre lo stesso. Per il giovane che si iscrive al primo anno della Cattolica, il neo rettore ha preparato un foglio in ciclostile, da sottoscrivere sotto lo sguardo dell’assistente ecclesiastico:

“Il sottoscritto, consapevole che l’iscrizione all’Università Cattolica, frutto di una libera scelta, importa particolari obblighi, dichiara di accettare gli impegni che direttamente derivano dalle finalità dell’Università Cattolica sopra riportate e sinteticamente espresso dall’art. 1 dello statuto di cui ha preso conoscenza. In particolare dichiara lealmente di riconoscere l’incompatibilità della permanenza nell’Università Cattolica: 1) colla pubblica professione di atteggiamenti contrari alla fede cattolica e di atti contrari alla morale cattolica; 2) con la adesione a movimenti, di qualunque tipo, non corrispondenti alle direttive della gerarchia; 3) con il ricorso ad atti diretti a impedire e a turbare con la forza, o comunque con mezzi non consentiti dalle norme vigenti, il libero funzionamento dell’ateneo; 4) riconosce perciò doverosamente accettabile e applicabile la vigente disciplina sul trasferimento ad altra Università di autorità del rettore, salvo il ricorso alle competenti autorità ecclesiastiche per i predetti motivi di sopravvenuta incompatibilità”. Segue firma della matricola e controfirma dell’assistente.

Un bel contratto per adesione, con le clausole vessatone riportate in evidenza, come l’abbonamento al telefono o alla televisione. Come dire “Ho preso atto che qui dentro si ubbidisce senza discutere, preferibilmente senza nemmeno pensare. Pertanto mi impegno, in particolare, a non bestemmiare, a non prendere nessuna tessera di partito che non sia quella DC, a non salutare, neppure da lontano, i contestatori del Movimento Studentesco, e mi guarderò bene, Dio mi perdoni, dall’occupare l’università. In caso contrario accetto che il rettore mi cacci fuori”. Con firma e controfirma.

La Cattolica è l’unica università in Italia dove si tengano corsi serali di economia e commercio, l’unica in Lombardia dove esista la facoltà di magistero, ed è rimasta la sola a Milano, dopo la liquidazione della Bocconi, dove si insegnino le lingue: presupporre dunque una “libera scelta” da parte di chi si iscrive a economia serale o a magistero o a lingue è assai problematico, in molti casi senz’altro scorretto. La Cattolica, poi, oltre che ente ecclesiastico, è al tempo stesso una persona giuridica di diritto pubblico (dopo il riconoscimento richiesto e ottenuto dallo Stato nel 1924). Fino a che punto, dunque, essa può imporre ai suoi iscritti i comandamenti della gerarchia in materie che (come la libertà di riunione, di associazione ecc.) sono regolate in modo diverso, almeno nominalmente, nelle altre università di diritto pubblico?

Era forse più comprensibile, in un certo senso, la formula del “giuramento antimodernista” che Padre Gemelli aveva imposto ai laureandi nel lontano 1921: in un periodo di grande conflitto tra fede e scienza, si trattava allora di salvaguardare un certo tipo di scuola che si voleva mantenere pura, integra da qualsiasi genere di influenza “mondana”. Abolita da un paio d’anni la formula del giuramento, ormai divenuto mera formalità, ci ha pensato ora un rettore, a suo tempo presidente di Azione Cattolica, a rinnovare in termini moderni e perentori la scomunica contro le “cose del mondo”. Richiesto se non fosse in contraddizione questo suo atto con la tregua contrattata alla fine di giugno con gli studenti, il prof. Lazzati ha candidamente ribattuto che una tregua vale solo con chi è stata stipulata, non dunque con le matricole.

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