Piazza e politica: Milano in camicia nera

Milano. Doveva essere una giornata di vacanza. Infatti la città, come racconta l’Unità del giorno 20, si era svegliata in un clima “quasi ferragostano”: strade vuote, saracinesche abbassate, automobilisti agili e tranquilli, “un andare pigro di poche persone” nelle strade del centro e, sul sagrato del Duomo, “la corsa felice dei bambini che rincorrono i colombi”. Una giornata di lotta per la casa, la salute, la dignità civile dei lavoratori – coi lavoratori lasciati a casa a dormire, o liberi di andare sul Ticino a pescare. Pure qualcuno, forse per eccessivo scrupolo, si era alzato anche prima del solito per andare ai cancelli della fabbrica, nell’aria fredda, incredibilmente tersa della mattina, le strade e i marciapiedi tappezzati coi manifestini del MSI: “i sindacalisti di sinistra non hanno case ma ville”, e “abbasso i partiti”, e “viva l’esercito”. Ma non c’era nulla da picchettare.

Era il cento per cento assicurato, senza contestazioni. Così la “Milano in lotta” poteva radunarsi tranquillamente a teatro per celebrare il suo trionfo: i dirigenti dietro il tavolone rosso del palcoscenico, i lavoratori sul velluto rosso delle poltrone o in piedi sul rosso cardinale dei tappeti, operai dai capelli grigi, con la moglie accanto e il figlio sulle ginocchia, seduti nei palchi arabescati di rosso: ”una giornata festiva eccezionale”, come ricorda ancora l’Unità. Dopo l’accordo degli edili, dopo la resa della Bicocca e del Pirellone, ci voleva proprio questo festoso sciopero generale per accelerare la conclusione delle vertenze.

 

Fuori intanto, per le strade del centro, i soliti cortei degli studenti questa volta non disturbavano neppure lo scarsissimo traffico. Affollato quello del movimento studentesco, sparuto quello degli anarchici, compatto quello dei marxisti-leninisti: ma solo questo corteo era seguito dai gipponi della polizia. Uscivano i lavoratori dal teatro Lirico dopo l’ultimo discorso di Storti, sfilavano davanti al Lirico i marxisti-leninisti, rombavano dietro di loro le macchine della polizia: a questo punto l’impatto. Bloccati gli automezzi dalla folla, gli agenti cominciavano febbrilmente a estrarre casco e manganello dai tascapani, gli occhi come drogati. Poi lo scarto della camionetta in via Restelli, una donna e un uomo a terra, i fischi, il lancio di monetine, i pugni sui cofani dei motori imballati, gli agenti in piedi dentro gli automezzi gettati contro le pareti per la breve, improvvisa retromarcia. Le bandiere rosse dei marxisti-leninisti avevano già sorpassato l’angolo oltre il Lirico, dirette in piazza Duomo, il corteo del movimento studentesco, seguito da presso dagli anarchici, si era già disciolto in assemblea dentro la Statale. Non restavano che lavoratori e spettatori lungo via Larga, già vincitori soddisfatti per l’arretramento imposto alla polizia.

Ma era solo lo spazio necessario a prendere la rincorsa. Sirene e partenza fulminante e carosello furibondo per tutta la strada – l’occhio vuoto dei guidatori e le braccia tese sul volante – e lancio di lacrimogeni e arrembaggio di celerini e di carabinieri da piazza Santo Stefano e da via Pantano: gli agenti della politica in mezzo a cercare di contenerli, altri agenti in borghese a incitarli bestemmiando. Fino al botto più forte, gippone contro camionetta, nel fumo denso che bruciava gli occhi. La gente non aveva con sé neppure uno stuzzicadenti, ma aveva a portata di mano il ponte di tubolari e assi sulla facciata del palazzo del comune. Così assi e tubolari e cubetti di porfido cominciavano a volare insieme con le bombe lacrimogene, e arrivavano gli studenti da piazza Duomo e dalla Statale, e si udivano i primi acutissimi fischi delle autoambulanze. Durava quasi due ore. fino alle 13 e mezza. Poche ore più tardi moriva al Policlinico l’agente Antonio Annarumma, il guidatore del gippone finito addosso alla camionetta, forse colpito al capo già prima dello scontro da qualche pezzo di tubo scagliato o vibrato dalla strada.

 

Si era trasformata cosi in una giornata d1 rabbia, di lotta, di crisi politica. Infranta, ridotta a una goccia d’acqua sporca, la luminosa bolla di sapone dell’unità milanese intorno allo sciopero di tutti i lavoratori, distrutto il precario equilibrio che aveva fatto chiudere, insieme ai cancelli delle fabbriche, anche le saracinesche dei lattai e dei salumieri, nonché le porte degli studi legali e degli uffici pubblicitari. Si evidenziava ora con una certa nitidezza il filo prima tenue che teneva uniti alcuni fatti e alcune sfumature di quelle giornate: l’invasione dei manifestini e delle scritte del MSI, le spedizioni delle squadre fasciste, nelle sere precedenti lo sciopero, contro i giovani studenti per lo più isolati – alla Casa della Cultura, all’Istituto Cremona, all’Ettore Conti, al Molinari: e poi il fatto che solo il corteo dei marxisti-leninisti, accusato in seguito alla TV di aver provocato gli “incidenti”, fosse seguito in forza dalla polizia; che. infine, agli agenti della squadra politica si fossero sovrapposti, nel corso degli scontri, elementi e direttive diversi.

Quel pomeriggio, mentre alla Statale una affollatissima, rabbiosa assemblea di studenti e operai individuava nella lotta di massa la risposta più efficace contro ogni tentativo di frazionamento imposto con la provocazione poliziesca, quel pomeriggio e quella sera, con sempre maggior insistenza si infiltravano antichi sermoni tra i borghesi, tra i più nostalgici fautori dell’ordine e dello stato forte. Una tela di ragno che dal centro si ramificava poi, col passar delle ore, sui marciapiedi, nei bar e nei negozi di tutta la città. Quella notte, ancora, alla caserma di piazza Sant’Ambrogio i celerini del terzo raggruppamento tributavano a loro modo le onoranze funebri al collega “caduto”: sirene e clacson dispiegati nel cortile interno, zuffe e spintoni e ingiurie ai superiori nel tentativo di uscire per andare a “far fuori” i maoisti della vicina università Cattolica, agenti che correvano fuori dal portone con gli occhi pieni di gas lacrimogeno trascinati dentro a viva forza dai colleghi: il tutto tra un continuo sovrapporsi di ordini e direttive contrastanti, visite di generali e sermoni borghesi.

 

Venerdì 21 novembre il funerale di Antonio Annarumma, a spese dello Stato. Dal Policlinico a piazza San Carlo un corteo che s’ingrossava sempre di più, signore in pelliccia con gli occhi umidi, bottegai e professionisti dal volto corrucciato e grave – i borghesi milanesi che odiano i terroni e che ora piangevano per la morte di un agente terrone – e tutte le possibili rappresentanze ufficiali del governo e degli organi pubblici. Davanti al feretro, – “tollerato” come spiega il Giorno “per non creare disordini o battibecchi quanto meno antipatici” – un compatto drappello di scorta dai colori ben definiti: il nero dei gagliardetti, l’arancio dei baschi parà, il tricolore abbrunato: i giovani leoni del MSI e della Confederazione, tanto cara alla somma autorità dello Stato. Sui muri, a chiare lettere, il manifesto-programma: “Italiani, lo sciopero rosso si è macchiato di sangue”.

Si inizia così il gran pomeriggio fascista di Milano. Contornato da saluti romani a braccio teso, da divise parà, da gagliardetti della repubblica di Salò, da canti di brigata nera: fatto di ministri e corazzieri impettiti, di borghesi affamati e impauriti, di spettatori ignoranti e dolenti, di malcelata omertà poliziesca: concretizzato in un tipo di caccia all’uomo che Milano non vedeva dai tempi della Muti, la furente e premeditata gran caccia al maoista. Nel breve spazio di mezz’ora, mentre la bara veniva trasportata nella cattedrale di San Carlo per il rito funebre, si contavano almeno otto tentativi di linciaggio nella stretta piazza antistante la cattedrale e nelle vie adiacenti. Studenti del movimento studentesco individuati tra la folla e circondati sotto i portici, incalzati dentro portoni o negozi, e qui picchiati a sangue: e tutto sotto gli occhi di tutti, tra le grida di tutti. I poliziotti, presenti in forze, arrivavano dopo – all’estremo limite tra pestaggio e linciaggio – a “difendere” a “salvare” le vittime, e queste poi, non gli assalitori, venivano portate in questura (dove uno studente era addirittura denunciato per “turbamento di funerale”).

Poi l’ultimo atto alla Statale, lasciata libera il giorno prima dagli studenti. Il corteo di fascisti vi faceva irruzione sotto gli occhi della polizia e sotto gli occhi della polizia ne usciva portando con sé volantini, manifesti e altro materiale “maoista”, e dopo averne fatto a pezzi, all’interno, la macchina ciclostile. “I dirigenti del servizio d’ordine – testimonia il Corriere – avvicinano i capi del corteo cercando di convincerli a sciogliersi. Non c’è niente da fare. Vogliono la spedizione punitiva”. E finiva col rogo dei volantini e delle bandiere rosse: polizia schierata da una parte, corteo dei fascisti in saluto romano e al canto di “Sole che sorgi” dall’altra: squallide controfigure nelle prime tenebre della notte.

 

http://astrolabio.senato.it/astrolabio/files/1969/1969_47.pdf#page=7

 

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