I balletti col verde
Astrolabio 1969/45 – 16 novembre 1969
Milano ha dimenticato i suoi problemi di città. Verde pubblico, zero; verde privato tanto. Ma parlare di alberi è un lusso quando molti ragazzi sono costretti a studiare in oratorio
In quindici anni è raddoppiata, è cambiata tanto radicalmente da non riconoscerla più. Tranne forse la Galleria e Piazza della Scala, o il naviglio a Porta Ticinese: la stessa provinciale presunzione in alcuni angoli del centro, lo stesso misero squallore negli antichi rioni popolari entro la cerchia dei navigli. Ovunque un traffico congestionato e, per sette mesi all’anno, la nera caligine dello smog che ricopre tutto, davanzali automobili in sosta cespugli rinsecchiti, che si insinua fin sotto i vestiti della gente.
Traffico e smog: con la dilatazione di questi problemi da grande metropoli industriale commerciale scientifica eccetera, Milano è riuscita per anni a mascherare dietro la sua facciata super-efficientista una realtà profondamente drammatica: la miseria crescente dei ghetti poveri in contrapposto alla sprezzante ostentazione dei sempre più ricchi quartieri alti; il sorgere incalzante, in centro, dei grossi edifici direzionali cemento e cristalli per uffici – al posto delle case d’abitazione abbattute – e la conseguente espulsione verso l’estrema periferia, in enormi casermoni dormitorio, di sempre più ingenti masse di persone; la distruzione progressiva, programmata, di tutti i tradizionali vincoli sociali – osteria, cooperativa, circolo culturale ecc. – forzatamente rimpiazzati dagli ormai classici rapporti consumistici – televisione, partita di calcio, passeggiata del sabato pomeriggio in centro per le vetrine e gli acquisti.
Al fondo di tutto questo, la logica precisa e implacabile del profitto: sulle aree e sui fabbricati, sul sistema dei trasporti e su quello della distribuzione dei servizi e delle merci; l’individuo è ormai solo e semplicemente una “unità produttiva”, il cui sfruttamento non ha praticamente soste: a casa come in fabbrica o in ufficio, a scuola e all’ospedale, in automobile e in tram, e quando va a fare la spesa nella bolgia dei supermercati. Con questo tipo di logica Milano è cresciuta fino a raddoppiare, l’intervento correttivo del potere pubblico risultando di volta in volta marginale o inadeguato, sempre comunque funzionale alla logica stessa del sistema. Altissimi, di conseguenza, i costi sociali in ogni genere di servizio pubblico, verde attrezzato, trasporti, assistenza scolastica e sanitaria ecc., neppure giustificati dalla qualità dei servizi stessi. Anzi.
Tra le poverissime di verde città italiane Milano è la più povera. Il Parco e i Giardini in centro, parco Ravizza e parco Lambro: a contare anche le spelacchiate aiuole spartitraffico e le strisce d’erba dei percorsi tramviari si arriva a un totale di circa 3,300 chilometri quadrati, meno di 2 metri quadri per persona. Non è neppure il caso di approfondire il confronto con le altre città, anche più industrializzate e congestionate, a sistema capitalistico: Chicago ha 9 mq di verde attrezzato pro capite, Amsterdam ne ha 19, Nuova York e Zurigo 22, Stoccolma addirittura 125. A Milano, nei quartieri popolari, si arriva fino a meno di 30 centimetri: come alla Bovisa, al Greco, a Porta Genova e lungo Viale Monza, dove il verde vincolato dal vecchio piano regolatore è letteralmente scomparso sotto le colate di cemento delle immobiliari private; o come all’Isola Garibaldi, dove ci sono 2 campi-gioco per 90 mila abitanti, percorsi a breve distanza dai puzzolenti velenosi navigli (“numerose persone – si legge in un recente documento del Consiglio di zona – hanno subito fenomeni di intossicazione acuta e svenimenti”). Non sorprende, al contrario, che Milano sia una tra le città d’Europa più ricche di verde privato. Bellissime, esotiche piante d’alto fusto, con prati all’inglese, campo da tennis e piscina riscaldata, sono di rigore nelle rifatte-in-stile dimore dei manager arrivati: gioielli inaccessibili incuneati tra file di case anche in pieno centro, o nascosti da alte muraglie dietro le ville miliardarie di San Siro. La gente vi passa accanto ogni giorno, e neppure lo sa.
Quale sia, a questo punto, la politica del verde adottata dall’amministrazione meneghina lo dimostrano alcuni recenti episodi. Grande pubblicità diede il comune, nel marzo scorso, all’acquisto di circa 50 mila mq di verde privato, attrezzato con un campo di calcio e alcuni campi da tennis, il tutto per una spesa di quasi un miliardo. Senonché, se era vero che la quantità di verde pubblico aumentava, non aumentava invece di un solo centimetro il verde totale in città, in quanto quelle aree erano già prima a verde e, soprattutto, vincolate: i proprietari privati, cioè, non avrebbero potuto costruirvi sopra alcunché: il tutto si risolveva dunque in un affare a vantaggio esclusivo di questi privati, pagati profumatamente per un servizio di nessuna utilità pratica per la comunità: quasi a risarcirli della sfortuna di possedere aree sulle quali non era possibile speculare. E solo a seguito di una decisa battaglia in consiglio comunale, un’altra operazione del genere non andava in porto circa un mese più tardi: questa volta si trattava delle aiuole poste attorno al Cimitero Monumentale, base 50 mila lire al mq, verde anche questo inedificabile, perché “fascia di rispetto cimiteriale”.
Ma parlare di verde oggi, a Milano, è davvero un lusso, come disquisire di champagne quando manca anche il companatico. Le scuole sono ufficialmente aperte già da alcune settimane, ma molti bambini e ragazzi milanesi ancora non ci possono andare, molti altri sono ospitati in edifici vecchissimi, senza riscaldamento, tanto cadenti da farne temere, al limite, il crollo. I grossi disagi cominciano subito, alla scuola materna: quasi 40 mila le domande presentate, meno di 28 mila i posti disponibili, anche prendendo a prestito stanze e corridoi nei luoghi più strani. La prima discriminazione riguarda dunque circa 12 mila bambini, quelli dei rioni più poveri: 800 posti su 1530 domande nella zona Venezia, 1360 su 2400 domande nella zona Ticinese-Genova, 1480 su 2720 al Lorenteggio, 1760 posti su 2700 domande a Baggio. Quanto agli asili nido, si arriva ai casi limite di Porta Romana, 80 posti per una popolazione di 40 mila abitanti. o della Bovisa, dove l’asilo è ospitato all’interno di un ospedale per malattie infettive; contemporaneamente, il nuovo edificio costruito a Vialba dall’Ina-Case continua a rimanere inutilizzato, e cade a pezzi tra erbacce e detriti.
Poi, dalle elementari alle medie superiori, trovare un banco nella sede principale è diventato privilegio da “pierini” oppure fortunata coincidenza astrologica: quasi ovunque, infatti, le iscrizioni si sono svolte sulla base di graduatorie elaborate sul profitto ottenuto l’anno precedente, in ordine d’età quelli col medesimo profitto, al fondo i ripetenti. Agli ultimi in graduatoria sono rimaste le “aule” lontane dalla sede e dal corpo insegnante: in genere stanzoni d’oratorio, oppure seminterrati, come nella scuola di Via Noto, o negozi sfitti. come nel rione San Francesco a Limbiate. Il liceo artistico di Brera respinge 180 domande su 445 presentate, lo scientifico Leonardo da Vinci iscrive alle prime classi esattamente la metà dei richiedenti (230 su 460), al liceo classico Berchet le classi distaccate aumentano da 6 a 18.
Nel quartiere di Porta Venezia la situazione è precipitata, proprio nel senso letterale del termine: c’erano 3 scuole in tutto, lo scorso anno, per una popolazione di oltre 8 mila studenti: ora la prima, di Via Pisacane, è stata demolita dopo un pauroso accenno di crollo ed è in fase di riedificazione; la seconda, di Via Tadino, si è come ammosciata all’interno e vi si devono ricostruire tutti i soffitti; la terza infine, di Via Stoppani, si presenta in uno stato pietoso, crepe nelle fondamenta, vetri rotti sostituiti da assi di legno, classi d’asilo sistemate nei corridoi. L’edificio di Via Borgognone, gravemente danneggiato e pericolante, viene chiuso solo dopo un lunghissimo braccio di ferro tra il comune e le vivacissime assemblee dei genitori.
Eppure tutto questo lo si sapeva, era stato previsto fin dal 1963 quando una commissione presieduta dall’attuale sindaco Aldo Aniasi, allora assessore, aveva fatto il punto sulla situazione dell’edilizia scolastica milanese: incredibile e allarmante lo stato di abbandono degli edifici più vecchi, impellente la necessità di nuovi posti alunno in previsione della rapida crescita della popolazione studentesca. Occorrevano in tutto, alla provincia di Milano, oltre 120 miliardi per la costruzione di 491 nuove scuole: ne sono stati stanziati circa 8 dallo stato, dopo la famosa legge del 1967: fino a oggi, attraverso l’estenuante trafila burocratica imposta dalla legge, è passato compiutamente un solo progetto, quello della scuola professionale di Rho recentemente ultimata, mentre di un’altra sola scuola, quella di Rozzano, è stato concluso l’appalto.
Cosi sono quasi 100 mila gli scolari e gli studenti milanesi per i quali la giornata scolastica inizia un’ora prima degli altri, a causa dei forzati, lunghi trasferimenti nelle sezioni distaccate, oppure termina a sera inoltrata, per il gioco dei doppi e anche dei tripli turni nelle medesime aule sovraffollate. Sono i “meno bravi” nella scala del profitto, costretti a continuare nelle condizioni di maggior disagio: è un chiaro, programmato invito a smetterla con gli studi, per cercar lavoro in fabbrica, dequalificati come i loro padri (secondo uno studio recente elaborato nel comune di Sesto San Giovanni, su 100 ragazzi bocciati 27 sono figli di operai, 36 di disoccupati, 46 di pensionati).
E’ in questo senso che va inquadrata la politica scolastica del comune, che di regola ha limitato i suoi interventi all’ordinaria amministrazione (quando, addirittura, non ha avallato operazioni apertamente reazionarie, come lo sfratto dei giovani occupanti l’Albergo Commercio, da mesi trasformato in Casa del lavoratore e dello studente). Cosi i vecchi edifici han cominciato a crollare, i nuovi son rimasti sulla carta ancor prima dell’appalto, il bilancio stesso della scuola materna. quest’anno, è stato tagliato di 2 miliardi versati poi, come si è visto, a qualche ricca azienda privata per alcuni spiazzi di verde fasullo.
(1 -segue)
http://astrolabio.senato.it/astrolabio/files/1969/1969_45.pdf#page=31
La speculazione di rito ambrosiano
Astrolabio 1969/46 – 23 novembre 1969
Milano 1970: il centro storico scomparso, migliaia di case costruite abusivamente, cascine e catapecchie per i lavoratori, lussuosi quartieri residenziali per i ricchi
C’è a Milano un piano regolatore, ufficialmente in vigore dal 1953, e c’è anche un regolamento edilizio ancora più vecchio, addirittura del 1920, che dal 1953 appunto attende di essere riveduto e aggiornato alla luce dei nuovi criteri urbanistici. Ma le leggi, è noto, sono lunghe da fare e poi, una volta entrate in funzione, impongono procedure, termini, limitazioni, perizie, controlli eccetera a non finire. E mentre si sta a perdere tempo tra discussioni e carte, la città richiede iniziative precise e fatti: dalla Calabria, dalla Sicilia, dalle Puglie, dagli Abruzzi, dal Veneto arrivano ogni giorno braccia a vagoni, uomini che vogliono un lavoro e una casa, e subito. Nella capitale lombarda, si sa, la gente ha fretta e bada al sodo: tiriamo su, intanto, queste fabbriche, questi uffici, queste case, alla legge penseremo poi. Così una nuova legge – empirica, funzionale, elastica, rapidissima: milanese – si sostituisce in breve a quella ufficiale – esterna, burocratica, perditempo – nell’osservanza per quanto possibile delle forme. E nasce il “rito ambrosiano”, fondato su due istituti basilari, quello del “precario”, la forma, e quello della “tangente”, la sostanza.
Il gioco è semplicissimo, un uovo di Colombo che consente il rilascio di licenze edilizie di qualsiasi tipo e dimensione: il competente ufficio comunale, infatti, nei casi in cui la domanda sia in contrasto col piano regolatore, autorizza comunque la costruzione con la formula del “precario”, si riserva cioè la facoltà di far demolire, in un eventuale futuro, quanto edificato. Una formula che, se ha un senso quando si tratti davvero di una costruzione precaria, cioè non stabile come una baracca o un chiosco per giornali, perde evidentemente di significato quando si tratta invece del grattacielo Pirelli. Naturalmente la formula funziona solo a condizione che tutti gli ingranaggi siano disposti a muoversi nel modo richiesto, ed anche questo delle “tangenti” è un sistema funzionalissimo, elastico e preciso: gli assegni a quote fisse o proporzionali, l’appartamento di lusso, la promozione amministrativa, l’incarico politico.
Cosi Milano è cresciuta dal milione e 150 mila vani del 1953 agli oltre 2 milioni di vani attuali, funzionando per un quarto col rito ambrosiano. In termini assoluti la capitale lombarda è quindi per un decimo fuori legge, una fetta di case e di uffici grande quanto Modena o Livorno o Foggia che, in teoria, potrebbe essere annullata, demolita da un giorno all’altro. Quanto questo affare abbia fruttato è difficile da precisare. Si può pensare, verosimilmente, a un giro complessivo di quasi mille miliardi, con una rendita per i proprietari delle aree non inferiore al 30 per cento. Così sono sorte, pressoché dal nulla, le grandi immobiliari che oggi dominano la città: gruppi limitati di proprietari terrieri di diversa estrazione, collegati sia tra di loro sia con le banche, alleati alla curia, al capitale industriale, alle segreterie dei partiti.
Il processo di ammodernamento della grossa industria cittadina, che si inizia negli anni cinquanta, consente vantaggiosissime speculazioni alle società che spostano i loro impianti dal centro alla periferia: caso tipico la Aedes, legata alla Pirelli (o, più recente, la trasformazione in zona residenziale dell’area occupata ad Abbiategrasso dall’ex cotonificio Dell’Acqua, che frutta circa un miliardo al “libanese” Felice Riva). Poi, passato il periodo di amministrazione centrista – legato ancora per alcuni aspetti al problema della ricostruzione e dominato dalle forze tradizionali della speculazione edilizia – l’inizio degli anni sessanta porta a Milano il centro-sinistra, il primo centro-sinistra d’Italia. E il discorso si fa diverso, culturalmente più approfondito e articolato: si costituisce il PIM, Piano Intercomunale Milanese, allo scopo di elaborare una pianificazione urbanistica che tenga presente anche gli interessi dei comuni vicini al capoluogo: Milano ormai si va configurando come una futuristica megalopoli allargata senza soluzione di continuità fino a Legnano, Gallarate, Arcore, Lodi, Melegnano, braccia che si distendono verso le gemelle del triangolo magico Torino e Genova, e poi Brescia, Varese, Piacenza eccetera.
Ma le grandi idee riformistiche, al contatto con la realtà, spesso non portano che a una miglior efficienza nel sistema della distribuzione: dei posti e delle tangenti. Cosi il feudo dei lavori pubblici si trasforma da scelbiano a massariano o, più genericamente, socialista. Benedizioni vescovili, in seguito papali, non vengono lesinate agli enormi precari della zona sud della città (cosi più tardi, quando il comune cercherà di legalizzare la situazione varando appunto la “variante sud” del piano regolatore, ci si accorgerà che nella zona esistono già, al momento della delibera, ben 3 milioni e mezzo di metri cubi costruiti in violazione di legge). Il programma di edilizia economica che il comune e l’Istituto Autonomo Case Popolari decidono di adottare nel 1960-61 si trasforma in un formidabile affare per le imprese edilizie: si decide infatti di costruire col sistema del prefabbricato, una iniziativa d’avanguardia in campo nazionale, e si commissionano a più riprese circa 40 mila alloggi a imprese che per ciò appositamente devono attrezzarsi dei necessari impianti tecnici (tra di esse vi è anche quella dell’ing. Manfredi, ben noto a Fiumicino).
Senonché i prezzi del prefabbricato, che dovrebbero essere inferiori a quelli ottenibili col sistema di lavorazione tradizionale, si rivelano al contrario assai più elevati: nella prima convenzione del 1962, relativa a 23 mila alloggi, un metro cubo di prefabbricato viene fatto pagare attorno alle 20 mila lire, quando il prezzo del mercato tradizionale è più basso di almeno il 25-30 per cento. Né i ribassi successivi concessi dai prefabbricatori (del 5 per cento) bastano a modificare sostanzialmente le dimensioni dell’affare: è in questo modo che tutti i complessi e costosi impianti di prefabbricazione possono essere abbondantemente ammortizzati, in pochi anni e a spese della comunità. E pure il PIM, nel frattempo, si è progressivamente afflosciato, un fantasma ormai a cui si sottopongono decisioni già prese e da cui si ricevono raccomandazioni inascoltate, un organo volontario svuotato della volontà politica del suo componente più forte.
Cosi la Milano di oggi è una città completamente diversa da quella prospettata dal PIM e dal piano regolatore. li centro storico è pressoché scomparso, sconvolto dalle demolizioni che solo negli ultimi otto anni hanno cancellato oltre 15 mila appartamenti e gran parte delle botteghe artigiane, degli studi artistici, dei negozi popolari, che ne erano la caratteristica più antica e vitale. Si è trasformato in un concentrato di uffici direzionali e di attività commerciali, il centro obbligato – e quindi sempre più intasato – di tutta la vita di Milano, anche di quella sociale artistica e culturale, dato che tutti i teatri, i cinema di prima e seconda visione, le biblioteche, i locali di divertimento sono radunati qui attorno.
La gente delle case abbattute è cacciata lontano, nuovi pendolari della periferia accanto alle famiglie dei “terroni” immigrati (1 milione 323 mila nella provincia di Milano, con un rinnovato incremento di arrivi negli ultimi mesi). Il costo di insediamento di ciascuno è stato valutato intorno alle 300 mila lire, 6 milioni circa considerando anche i servizi comunitari e la casa: quasi 200 miliardi all’anno, ma il comune di Milano ne può spendere al massimo una decina. Così cerca di spedirli nei comuni vicini, a Sesto San Giovanni a Cinisello Balsamo a Bollate a Rho a Corsico a Locate Triulzi eccetera, scaricando per quanto possibile sui vicini le proprie contraddizioni di comune imperialista: il profitto in città, i costi sociali fuori.
Nei quartieri IACP di Gratosoglio e di Rozzano, al Gallaratese e al Tessera, nei suburbi privati di Baggio e del Lorenteggio, nelle coree di Cologno e di Zibido San Giacomo, la vita ha una dimensione univoca e piatta: ci si va a dormire e a mangiare. Tutto il resto è fuori, le industrie e il lavoro, le scuole superiori e gli ambulatori, i cinema e le birrerie. Per il centro, al massimo, passano un autobus e un tram. “Il problema delle infrastrutture – ammetteva recentemente l’assessore Bonatti – e dei servizi nei quartieri periferici e in particolare nei quartieri popolari di recente costruzione è ben lontano dall’essere completamente risolto”. In realtà il comune non ha fatto quasi nulla per quello che riguarda le opere di urbanizzazione secondaria (scuole, campi da gioco, servizi di collegamento ecc.), facendo lamentare numerose manchevolezze anche negli interventi di urbanizzazione primaria (illuminazione, strade, fognature, verde). Né si è preoccupato, come consentitogli dalla legge, di far ricadere questi oneri sui costruttori privati, che nel 1968 hanno ottenuto licenze edilizie per oltre 150 mila vani avendo come unico vincolo la cessione della semisede stradale (a Bologna, per fare solo un esempio contrario, le licenze concesse nello stesso periodo sono state 30 mila circa, vincolate a un contributo fisso di 1700 lire al mq).
In compenso sono sorte, usufruendo di tutte le provvidenze e dei contributi dell’edilizia economica, le case di lusso in cui abitano alcuni deputati milanesi dci partiti di maggioran1.a. sindaco e assessori, alti dirigenti comunali, capi-ripartizione eccetera. Carriere politiche brillanti e camp::igne elettorali sono state finanziate attraverso gli affari tipo variante sud o prefabbricato. E pure la “cultura” ufficiale della città e della casa ha avuto la sua parte, architetti ingegneri geometri addetti ai lavori che, stando al gioco, hanno incassato tra i J 5 e i 20 miliardi in parcelle: finite naturalmente nel conto spese dci piccoli risparmiatori o nell’affitto degli inquilini meno abbienti.
Ora, malgrado siano complessivamente aumentati negli ultimi anni gli interventi dell’edilizia pubblica (dai 2 mila alloggi in media degli anni 1954-64 ai 6 mila costruiti dall’IACP nel 1968, con la punta dei 12 mila prefabbricati del I 966, il patrimonio pubblico a Milano, comprese le cooperative a proprietà indivisa, non raggiunge la quota del 10 per cento degli stabili. Senonché, qualunque sia il tipo di conduzione – pubblica o privata, in condominio o in cooperativa – un quarto abbondante del patrimonio edilizio milanese risulta meno che mediocre, un altro quarto è senz’altro cattivo o pessimo. Privi di ascensore e di riscaldamento, servizi igienici in comune e fontana in cortile, gli stabili di corso Garibaldi e di Porta Ticinese, dei quartieri Magenta e Cialdini sono in disfacimento da anni, senza che una lira venga più spesa dai proprietari per le opere di manutenzione; cosi come non si attende altro che l’occasione buona per demolire anche nei quartieri popolari IACP di via Lulli, via Anfossi, Via Friuli, via Perugino. Le case GESCAL a riscatto di via Agrigento, via Levanto e via Cassino sono definite dal tribunale inabitabili: muri che non proteggono dall’umidità, vespai costruiti con materiali di demolizione, messa in opera scadente, cedimenti al pianterreno: i giudici condannano la GESCAL al risarcimento del danno, dato che le carenze si verificarono in primo luogo perché la progettazione lasciò a desiderare sia dal punto di vista tecnico sia ignorando del tutto la legislazione generale e la regolamentazione locale; in secondo luogo perché l’esecuzione dei lavori avvenne scorrettamente; in terzo luogo perché l’amministrazione comunale consentì la violazione di quella legislazione e di quei regolamenti che essa per legge avrebbe dovuto far rispettare (sentenza dell’11 nov. scorso). Nella zona di via Chioggia, via Tofane, via Jaures mancano persino le fognature, e siamo a poco più di 3 chilometri da Piazza del Duomo.
E’ in questi ambienti degradati che trovano il loro primo rifugio rifugio gli immigrati appena usciti dalla stazione Centrale: locali trasformati in camerate e dormitori, un materasso a turno che costa 15 mila lire al mese. Per un letto proprio, per una stanza dove stare da soli o con la propria famiglia bisogna andare in periferia. A Baggio, che è un suburbio tra i più popolari, un appartamento di tre locali delle case comunali costa 35 mila lire al mese, lo stesso prezzo di due locali più servizi nell’edificio privato nuovo; le uniche alternative sono le 22-25 mila lire per i due locali nelle case operaie di antica costruzione, senza bagno e senza manutenzione da anni, le 18-20 mila lire per il letto e l’armadio della camera ammobigliata in pensione, le 15-17 mila lire per le due stanze nei casolari e nelle cascine sparse in aperta campagna, gabinetto e acqua corrente fuori nel cortile. Salvo trascurabili differenze, è una situazione che si ripete in tutto l’hinterland milanese dove, secondo un’indagine dell’AIMI, !’indice di affollamento è di 1,7 persone per locale, con un affitto medio che incide per il 32 per cento sul bilancio familiare.
Frattanto, in città, il numero degli alloggi sfitti è salito a 25-30 mila – troppo di lusso le rifiniture e i servizi – mentre un nuovo tipo di intervento privato ha cominciato a svilupparsi. “Vi troverete tra gente uguale a voi”, dice la pubblicità di Milano San Felice: è il suburbio di lusso, all’americana – case a due piani, scuole elementari e medie, centro di vendita, parco giochi e finanche un laghetto a poche centinaia di passi, strade illuminate, e verde, tanto verde – il tutto cintato da una palizzata e custodito notte e giorno dai guardiani; è il rifugio del nuovo ceto medio, che si sente sicuro solo se isolato dalle vicende turbolente della vita cittadina, lontano dalla marea della gente che parla dialetti diversi, che agita idee diverse. Cosi anche la delusione, la paura per questa città diventata sempre più caotica, confusionaria, inumana, sono state mercificate: il prezzo è alto, ma per chi può c è, poco lontana, l’ancora di salvezza.
(2-fine)
http://astrolabio.senato.it/astrolabio/files/1969/1969_46.pdf#page=31