Astrolabio 1969/50 – 21 dicembre 1969
Al di là della lunga vertenza politico-diplomatica, la realtà economica e sociale di una regione che il “pacchetto” italiano rischia di lasciare inalterata
Bolzano. C’è chi dice che è passato sopra la testa della gente. Poche ore di frettolosa discussione in parlamento. Qualche titolo a due colonne sui quotidiani nazionali, magari in seconda pagina, poi telegrammi ufficiali per onorare la “storica” risoluzione. Cosi è venuto alla luce il “pacchetto”, nato già vecchio dopo una turbolenta gestazione durata almeno dieci anni, e messo subito nella incubatrice del “calendario operativo”, l’estenuante trafila dei provvedimenti legislativi e amministrativi di attuazione. La gente a Roma non ne sa molto, a Bolzano poco o nulla. Ricordi, da una parte, di tritolo e dinamitardi, tralicci abbattuti, caserme devastate, mine anti-uomo che falciano i difensori dei sacri e inviolabili confini del Brennero. Dall’altra il risentimento per la drastica incivile politica snazionalizzatrice del regime fascista, la rabbia che da venticinque anni accompagna le promesse non mantenute e i progetti inattuati, la sfiducia in un sistema – romano o trentino che sia – che nella sua bizantina supercomplessa macchinosità riesce sempre a trovare lo spazio per sopravvivere senza mai fare concretamente nulla.
L’Alto Adige è una provincia d’Italia, la più a nord sul confine austriaco. Anche qui, come in tutte le province d’Italia, la Costituzione non è arrivata, o vi è arrivata a brandelli. Per motivi storici ed economici diversi da quelli che hanno caratterizzato il fallimento delle autonomie siciliana e sarda, o la spoliazione delle terre meridionali, o il caotico disumano assembramento di povertà e ricchezza nelle regioni più fortunate del Nord. Ma senz’altro per la stessa serie di meccanismi politici di esclusione che tendono sistematicamente a svuotare di ogni volontà popolare gli istituti giuridici e amministrativi di democrazia diretta, concentrando nelle mani dei pochi la gestione di ogni potere. In Alto Adige, anzi, con lo statuto speciale del 1948, la stessa Costituzione ha introdotto un elemento poco favorevole alla piena esplicazione dell’autonomia: ha cioè inquadrato la provincia trilingue di Bolzano entro i confini di una regione più vasta, comprendente anche la provincia tutta italiana di Trento. Cosi gli appartenenti al gruppo di lingua tedesca, in grande maggioranza a Bolzano, si sono venuti a trovare in minoranza entro i nuovi termini, con tutti i motivi di scontro e di reciproco sospetto che si possono immaginare.
Ora il pacchetto prevede lo svuotamento dell’istituto regionale col potenziamento delle due autonomie provinciali, e la misura, pur così in ritardo, è senza dubbio positiva. Ma il problema politico di fondo rimane pur sempre il medesimo: se, cioè e in qual misura, le nuove norme tecniche contenute nel pacchetto saranno da sole sufficienti a modificare realmente in senso democratico un sistema di rapporti politici ed economici che è invece profondamente autoritario e antidemocratico; oppure se, al contrario, queste stesse norme tecniche, non sorrette da una reale politica innovatrice, non serviranno che a razionalizzare, e quindi a rendere ancor più efficiente, lo stesso sistema di potere.
Secondo le ultime rilevazioni statistiche (31 dic. 1967) vi sono in Allo Adige 235 mila abitanti di lingua tedesca (pari al 58,32 per cento), 153 mila italiani (38,07 per cento) e poco meno di 15 mila ladini (3,61 per cento). Netta è la diminuzione percentuale dell’elemento tedesco, che nel 1961 raggiungeva la quota del 62,25 per cento, e ciò è da attribuire al fenomeno della emigrazione dei montanari verso i più accoglienti posti di lavoro della Germania e della Svizzera tedesca. Il gruppo ladino è concentrato in Val Badia e in Val Gardena, a diretto contatto coi fratelli separati della provincia di Trento (Val di Fassa e Moena); affine al nucleo romancio dei Grigioni (cui la costituzione svizzera riconosce dignità linguistica) e a quello della Carnia, il ladino è un gruppo di lingua e cultura autonome assai antiche, di derivazione retico-romana. Negli ultimi anni, proprio questo elemento etnico-linguistico ha funzionato come catalizzatore della protesta antiburocratica contro Roma e Trento, parallelamente alla richiesta di maggiori poteri anche in materia amministrativa: ciò evidentemente per favorire le attività sulle quali queste valli si sostengono: il turismo, che è abbastanza fiorente, e la lavorazione artistica del legno in Val Gardena, un tipo di artigianato di serie. assai rinomato all’estero, che consente a un notevole numero di famiglie di evitare la miseria.
Gli abitanti di lingua italiana sono radunati nelle grandi conche di Bolzano e di Merano (dove infatti sono in leggera maggioranza) e nei centri più popolosi come Bressanone, Brunico, Laives. Vipiteno, San Candido, Brennero (dove parla italiano circa un quarto della popolazione). In tutti gli altri comuni più piccoli, nei borghi e nelle baite isolate, l’elemento italiano è pressoché inesistente. La frattura – fra città e periferia, tra fondo valle e montagna – risulta subito chiara a vista d’occhio: nella piana attorno alle città le industrie, gestite e occupate per la maggior parte da italiani: più in alto i contadini e i pastori di ceppo tedesco. Senza alcuna possibilità di integrazione economica e culturale. E’ dentro questa oggettiva spaccatura che si è inserita – a renderla sempre più profonda e insanabile – la barriera degli opposti na1ionalismì ideologici.
Importata massicciamente in epoca fascista – spesso semplicemente come filiale di aziende-madri nazionali, tipo la Lancia – l’industria è rimasta sempre strettamente subordinata alle vicende dei grossi gruppi centrali. Era poi un genere di insediamento sbagliato, che rispondeva a un unico elementare tipo di esigenza, quello dell’approvvigionamento di energia elettrica, qui particolarmente abbondante. Si dava cosi impulso all’industria pesante, dove con maggiori possibilità di espansione e di integrazione si sarebbero potuti sviluppare altri tipi di industria, per esempio quella manifatturiera di precisione, tipo orologi e apparecchi audiovisivi (e l’esempio della Svizzera, per molti aspetti vicina alla geografia economica altoatesina, è abbastanza illuminante e suggestivo). Negli ultimi anni, fatalmente, in corrispondenza col generale processo di ristrutturazione e di concentrazione finanziaria in atto nel paese, l’industria bolzanina non poteva che essere sempre più compressa in questo suo ruolo di marginale dipendenza: ridimensionate dal centro la Lancia e la Montecatini, il fase di trasferimento la Feltrinelli (prodotti del legno) e la Zuegg (alimentari), anche tutte le altre piccole aziende sono entrate, in varia misura, in crisi.
Dall’altra parte l’economia del “maso chiuso”, una struttura feudale che sopravvive ancora su tutte le montagne e in tutte le valli della provincia. E’ l’unità minima economica e culturale, autarchica: la fattoria agricola che si trasmette – come il feudo, attraverso la legge salica del maggiorascato – dal padre al figlio maggiore, indivisibile perché, dividendosi, non conserverebbe le dimensioni economiche indispensabili alla sua stessa sopravvivenza: il figlio maggiore capofamiglia che ha il solo dovere di mantenere i fratelli, vitto, alloggio e vestiario in cambio del lavoro quotidiano da servi. Infatti li chiamano ancora così, “landsknechte”, servi della gleba: i lanzichenecchi che nei tempi passati avevano come unica alternativa quella di arruolarsi nelle armate di passaggio, e che oggi hanno come unica alternativa quella di emigrare all’estero come lavoratori non specializzati. Ogni anno, ancora oggi, prima dell’inizio del lavoro dei campi, i “landsknechte” sono trattati, comprati e venduti a stagione, al mercato di San Valentino, dove i padroncini vengono a scegliere secondo muscolatura e prestanza fisica i loro “braccianti”, i quali come unico bagaglio si portano il cucchiaio sotto il cappello. A valle. la terra è buona, i vigneti e i frutteti rendono bene, le braccia per la coltura e la raccolta della frutta non costano che un piatto di minestra.
Terzo importante fattore dell’economia altoatesina, l’industria del turismo, riservata quasi esclusivamente a gruppi di lingua tedesca. Spesso a gestione famigliare, alberghi ed esercizi pubblici sono in grado di usare a piacimento e con larghezza una riserva di manodopera pressoché inesauribile. Per le due stagioni turistiche dell’annata, quella estiva e quella sciistica invernale, un contratto per una cameriera di stanza o per un barista può essere inferiore alle 100 mila lire: più il vitto, l’alloggio e le mance, e un orario di lavoro “a discrezione” del padrone, senza riposi, permessi o ferie. Per la maggior parte questi “knechte” dal grembiule blu sono giovani portati giù dal maso dai genitori, spesso ragazzi che non hanno ancora terminato le scuole. In città e nei paesi, ancora, le altre categorie intermedie dei piccoli commercianti e dei professionisti sono di prevalente marca tedesca, e ad essi si contrappone la folta schiera degli italiani impiegati presso le pubbliche amministrazioni, poste, scuole, ferrovie.
E’ in questo quadro complesso di strutture arcaiche e moderne insieme che la chiesa ha svolto costantemente il suo ruolo egemone. Ricca più che altrove di grosse proprietà terriere immobiliari e fìnanziarie, padrona di quasi tutta la stampa locale, la sede vescovile di Bressanone è stata sempre in grado di controllare direttamente tutti gli esponenti politici di lingua tedesca, nonché ogni sorta di organismo o movimento sociale e culturale sia venuto alla luce. “Glaube und Heimat”, fede religiosa e patria: decenni di predicazione dai pulpiti di tutte le chiese, nelle scuole e nei centri comunitari, hanno fatto del nazionalismo tirolese del basso clero la vera morale di tutti i buoni tedeschi: nella certezza dogmatica che socialismo vuol dire comunismo, e comunismo è uguale a inferno (è sintomatico che fino allo scorso unno il posto di vice-provveditore scolastico di lingua tedesca sia stato costantemente occupato da religiosi).
Ed è stata ancora la chiesa, negli ultimissimi anni, a impostare quel lento ma progressivo cambiamento di rotta nei partiti locali che ha portato oggi all’accordo sul pacchetto: un accordo che mentre tiene salve tutte le prerogative della chiesa. si propone anche di annacquare – nella visione di una nuova edificata pace cristiano-sociale – tutta la complessa realtà che, pur tra ritardi e incertezze, ha cominciato a muoversi anche in Alto Adige.
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Gli Schützen in condominio
Astrolabio 1969/51 – 28 dicembre 1969
Con il “pacchetto” si cerca di ammodernare il sistema di potere dal quale è stato prodotto: venticinque anni di amministrazione congiunta della Volkspartei e della Democrazia Cristiana
Schütz in der Einheit, la difesa nell’unità: più che una formula questo è un credo politico, un comandamento che la Südtiroler Volkspartei ha portato avanti costantemente nella sua azione dal 1945 a oggi. Tutti uniti, gli abitanti di parte tedesca, a difendere la loro lingua e la loro cultura contro i ripetuti attacchi integrazionisti della burocrazia italiana: le associazioni paramilitari degli Schützen e dei vigili del fuoco contro la fiamma tricolore del MSI e della Giovane Italia; baffi alla Hitler sberleffi e saluti neonazisti di fronte ai pubblici sportelli zeppi di uomini e di mentalità fascista. Gli interessi dell’agricoltura e del turismo di lingua tedesca contro gli interessi dell’industria e della burocrazia di lingua italiana: per l’interesse supremo di chi comanda nell’agricoltura, nell’industria, nel turismo e nella burocrazia.
Bloccato attorno ai principi assoluti dell’autorità e dell’ordine, il partito è fatto dal volere di una dozzina di notabili e dal seguito di una base larghissima di oltre 50 mila iscritti. Valli intere – la Pusteria, la Passiria, la Venosta – che sono da sempre in rapporto di quasi sudditanza col loro capo politico: ed è infatti solo col suo favore e con la tessera del partito che si possono trovare i posti buoni nell’albergo o nel maso, gli appartamenti liberi nelle case popolari. Così il partito è pane e lavoro, casa e famiglia, fede e “Tirolertum”, cioè essenza della civiltà tirolese, nella quale sì dissolvono tutte le possibili sfumature ideologiche. La politica la fa il vertice, in pochi attorno al tavolo delle decisioni e le discussioni che non escono mai dalla sala del consiglio. Perché – al di là delle beghe tra chi preferisce l’Austria di Kreisky e chi la Germania di Strauss, tra chi serve il volere del ricco albergatore e chi l’interesse del grosso frutticoltore, tra chi bacia più frequentemente la mano al vescovo di Bressanone e chi si professa laico – è chiaro che nell’unità del partito sta l’interesse di tutti.
Anche per la questione del pacchetto. Ormai sono già più di dieci anni che ci lavorano, i sudtirolesi a fare le richieste le più varie e disorganiche e impegnative, i democristiani bolzanini a limarle entro i termini tecnici e giuridici delle concessioni giuste e razionali e calibrate nei tempi debiti. Un deputato della maggioranza che fa da corriere con Roma, mentre loro sempre più spesso vanno a incontrarsi oltre confine coi parlamentari di Vienna, con le associazioni “culturali” di Innsbruck, Strasburgo e Monaco di Baviera, tipo il Berg Isel Bund, tirolese, o il Kulturwerk für Südtirol, legato al partito liberale tedesco. Ed è proprio da allora che si iniziano i veri attentati, scoppi di dinamite, tritolo e mine, a contrassegnare ogni tappa che le trattative percorrono, neppur sempre per sostenere le ragioni di una determinata parte: la “notte dei fuochi” del giugno 1961, le tre bombe alla stazione centrale di Milano il 28 aprile 1963, la distruzione della statua di Andreas Hofer a Innsbruck nel 1964, i candelotti di dinamite sotto i ponti e le funivie nella provincia austriaca del Sakammergut nel 1965, fino agli episodi drammatici di Malga Sasso, settembre 1966, di Cima Vallona, giugno 1967, di Trento, ottobre 1967. A un certo punto c’è stato persino un incontro, a Verona, tra gli esponenti dei due gruppi dinamitardi, neonazisti e fascisti insieme per decidere la fine della concorrenza.
Anche a causa di questo sangue e di questa violenza il pacchetto è arrivato in porto con tanto ritardo. Esso fissa oggi, in termini giuridici, una situazione di partenza che risale agli anni cinquanta, indica rimedi e soluzioni tecniche per questioni politiche ormai superate o a tal punto deteriorate da risultare praticamente inefficaci. Per esempio per la scuola, cristallizzata da sempre su posizioni di supernazionalismo di marca ministeriale, e destinata a diventare, attraverso le norme del pacchetto, ancor più razzista, separata in tutte le sue componenti, corpo insegnante, amministrazione, programmi. In termini politici, ancora, il pacchetto si propone di ammodernare e istituzionalizzare il sistema di potere dal quale esso è stato prodotto: venticinque anni, cioè, di amministrazione congiunta Volkspartei-Democrazia Cristiana, con l’avallo socialista dell’ultima ora. E come per qualsiasi azienda od organismo, anche per questo sistema di potere ristrutturare significa gettar via orpelli e ciarpame antichi, eliminare personaggi magari gloriosi ma ingombranti, e portare alla ribalta, al loro posto, la nuova guardia della giovinezza e della tecnocrazia. In questo senso sono da interpretare, almeno in parte, le opposizioni interne ai due partiti di maggioranza: otto su ventisei contro il pacchetto nella DC, il 45 per cento contro la linea del leader Silvius Magnago nella Volkspartei.
Senonché le dispute si sono presto sopite, e dopo le accanite polemiche e le minacce di spaccature delle scorse settimane si è passati al clima quasi disteso di oggi, con la tranquilla approvazione al parlamento austriaco della questione riguardante il pacchetto. Il fatto è che, in fondo, sia la Democrazia Cristiana sia la Volkspartei sono convinte di poterlo gestire, questo pacchetto, come a loro farà più comodo – naturalmente attraverso metodi e con contenuti più avanzati e moderni di prima: a voi la vostra fetta di parte tedesca, a noi la nostra fetta di parte italiana. Salva la possibilità, da una parte, di tentare l’esperimento di una nuova maggioranza, considerato che la DC bolzanina è complessivamente orientata a sinistra, e che il PCI, assai debole in provincia (meno del 6 per cento alle ultime regionali, insieme col PSIUP e con gli indipendenti), si pone in realtà come la forza determinante di tutta la questione in sede parlamentare (essendo necessaria per l’applicazione del pacchetto una maggioranza di due terzi).
L’ipotesi di un nuovo schieramento è infatti in primo piano anche a livello di Partito Comunista: nella prospettiva di una attuazione piena, in senso democratico, del pacchetto, e questo a sua volta inquadrato in una corretta interpretazione del fenomeno nazionalistico. Perché il nazionalismo, di tutte e due le parti, è una realtà: ha un significato la lingua che si parla e quello di cui si parla, hanno un valore i vestiti che si indossano, le feste e le riunioni a cui si partecipa, le abitudini che si ereditano e si costruiscono giorno per giorno. Lingua e cultura sono cose vive e la gente non rinuncia, consenziente, a questa parte della sua vita. Si tratta, se mai, di riempire questa lingua e questa cultura di contenuti democratici. E a ciò il pacchetto può servire. Certe sue misure infatti, per esempio l’adozione temporanea della proporzionale etnica nel pubblico impiego, potrebbero consentire una sensibile attenuazione della tensione ora esistente tra i due gruppi etnici. Ed è solo su questa ritrovata reciproca fiducia che si può stabilire un vero collegamento con la massa dei lavoratori di lingua tedesca. Quanto sia realistica una tale ipotesi è da verificare attraverso l’analisi dei nuovi movimenti che, all’interno e fuori dagli schieramenti politici tradizionali, caratterizzano l’attuale situazione dell’Alto Adige.
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Il pacchetto nello stagno
Astrolabio 1970/1 – 4 gennaio 1970
Perché la politica economica della SVP ha sempre mirato al mantenimento dello “statu quo”
La prima frattura nella Südtiroler Volkspartei risale alla primavera del 1966. A Vienna il centrosinistra era entrato in crisi, i socialdemocratici della SPO erano passati all’opposizione lasciando ogni responsabilità di governo ai democristiani dell’OVP, un nuovo ministro degli esteri, Toncic, aveva preso il posto del leader SPO Bruno Kreisky, fino a quel momento protagonista delle trattative con l’Italia in relazione alla questione altoatesina. Parallelamente a Bolzano, per la prima volta nella sua storia, la Volkspartei espelleva un notabile del partito facendo uso dell’art. 8 dello statuto, che proibisce l’organizzazione di correnti interne, sacro il principio che ogni critica “deve esercitarsi nell’ambito degli organi di partito e non può investirne i programmi”.
Appena fuori dalla SVP, per la quale era stato anche consigliere regionale, il dottor Egmont Jenny dava vita alla Soziale Fortschrittpartei Sudtirols (partito del progresso sociale), fondando in gran parte la sua linea politica su quella del partito di Kreisky, di cui Jenny si era mostrato da tempo ammiratore e amico. Necessità cioè di un ancoraggio (o garanzia) internazionale alla questione del pacchetto, nel quadro di una autonomia effettiva per la provincia di Bolzano, fuori dai veli e dalle ambiguità del legame regionale con Trento.
Era stato questo, fin dal 1960, il nucleo politico delle trattative tra Kreisky e i ministri italiani, prima Segni poi Piccioni e Saragat. Alla fine del 1964, anzi, un accordo di massima sembrava essere stato raggiunto dalle due parti sul terreno dell’ancoraggio internazionale, risultando però sempre insoddisfacenti, agli occhi e agli interessi dei molti oppositori di Kreisky in Austria e in Alto Adige, le misure di autonomia previste dal pacchetto. Così l’accordo non era passato, Kreisky aveva lasciato la partita agli amici-nemici della Volkspartei austriaca e altoatesina, per molti aspetti più malleabili, più disponibili al tipo di dialogo preferito da Roma, basato più sullo scambio di privilegi e concessioni interne e specifiche che non sulla trattativa di garanzie giuridiche di ordine generale e internazionale.
Nell’aprile del 1966 la SFPS di Jenny nasceva dunque come risultato di tale inversione di linea politica da parte dell’Austria e della Südtiroler Volkspartei, Ma esprimeva anche, oggettivamente, una reale esigenza di democratizzazione all’interno delle arcaiche e autoritarie strutture politiche altoatesine, la consapevolezza, sia pur tenue e approssimativa, che il partito unico di lingua tedesca non era più sufficiente, che, anzi, esso andava contro gli interessi della stessa gente tedesca, nel momento in cui, dietro lo schermo del nazionalismo più esasperato, mascherava l’interesse di ristrette e ben determinate classi economiche. Alle ultime elezioni regionali la SFPS ha superato largamente la quota dei 5 mila voti, raccogliendoli tra le categorie più eterogenee: albergatori scontenti e contadini legati all’interesse clientelare, professionisti di vaga tendenza progressista, liberali laici indecisi, che magari, come qualcuno ha ironizzato, “parlano male dei preti di giorno e hanno paura del diavolo la notte”.
Così poco chiaro nei suoi contorni ideologici, così incerto nella sua composizione e struttura organizzativa, il partito socialdemocratico di Jenny ha comunque “tenuto” in modo sorprendente di fronte ai rabbiosi attacchi della SVP ed è questo il sintomo più evidente del profondo stato di inquietudine e di disagio politico in cui si trova appunto la SVP. La sua costante, cocciuta politica di conservazione, il blocco acritico e disideologizzato intorno ai consueti temi del nazionalismo più logoro – difesa della razza, della lingua, della cultura tirolese – non potevano non produrre tutta una serie di pesanti contraddizioni anche a livello politico, nella misura in cui tali schemi non riuscivano a trovare corrispondenza nella realtà economica e sociale della provincia.
Così ai fenomeni della progressiva disoccupazione dei contadini, della lenta ma sempre crescente emorragia di braccia provocata dall’emigrazione (sono oltre 10 mila i montanari altoatesini che hanno lasciato l’Italia negli ultimi anni), la Volkspartei ha contrapposto la linea politica del semplice contenimento etnico, la pratica costante dell’intervento settoriale, occasionale o straordinario. Nel tentativo evidente di tener fermo, per quanto possibile, lo status quo in termini di potere. Perché industrializzazione seria efficiente e programmata, se significa blocco e superamento della disoccupazione e dell’emigrazione, vuol dire anche aumento del livello dei salari, crescita generale del tenore di vita della gente: vuol dire quindi portar via le braccia dei “knechte” dai masi e dagli alberghi, rompere forse irrimediabilmente lo stato di passiva soggezione civile e sociale della massa sottoproletaria. Per questo l’insediamento di nuove industrie è stato favorito solo in relazione a particolari esigenze di localizzazione (nei centri dove maggiore era la spinta migratoria) e di dimensione (nella misura cioè della migrazione stessa). Quasi sempre, poi, cercando di attirare in provincia il capitale da oltre frontiera, soprattutto dalla Germania: piccole unità produttive impiantate su terreni forniti gratuitamente dal comune, esentate per anni da ogni tipo di gravame fiscale, con una massa di manodopera non qualificata a disposizione, e il ricatto facile da esercitare ogni volta che qualcuno alza la testa per invocare il diritto sindacale: statevene buoni, oppure chiudo e me ne torno in Germania.
E per tenere ancor più buoni i lavoratori di lingua tedesca, la Volkspartei ha inventato pure il sindacato nazionalista-padronale. Sembrava infatti troppo avanzato il nucleo di lingua tedesca che dal 1946 era inglobato nella CISL provinciale: artisti e maestri elementari in stato di perenne soggezione nei confronti della chiesa, e pure snobbati un poco dai colleghi di lingua italiana. Così nel 1964 la SVP dava vita, insieme con le ACLI, all’Autonomer Südtiroler Gewertschaftsbund (ASGB), specializzato in ogni tipo di operazione di copertura padronale. Ultimo atto, per citare solo un esempio, l’accordo aziendale promosso recentemente alla “Birfield” di Brunico, impresa metalmeccanica con circa 500 operai: 6 mila lire di aumento subito, ma niente scioperi, di nessun tipo, nazionali o provinciali.
Sul piano ideologico questo tipo di “politica economica” è stato fatto passare, all’interno del mondo tedesco, come la giusta contromisura per difendere gli interessi dei contadini contro l’attacco dell’industria italiana: dove contadino vuol dire superbo esempio di virtù tirolese, e industria italiana significa invasione di terroni sporchi e prevaricatori. Non fa meraviglia, in tale stato di confusione ideologica, che questo tipo di fobia verso ogni forma di industrializzazione (soprattutto se a partecipazione statale) sia stata utilizzata ultimamente sia dai sostenitori sia dagli oppositori del pacchetto all’interno della Volkspartei: da una parte chi, sicuro di poter gestire il pacchetto secondo gli interessi degli albergatori e dei pochi industriali tedeschi, lo riteneva idoneo a impedire l’avvento in provincia dell’industria IRI; dall’altra chi, fedele servitore dei beni dei proprietari terrieri, puntava l’indice accusatore sul fatto che lo stesso pacchetto avrebbe consentito l’infiltrazione nelle valli e nei centri contadini del capitale industriale italiano. Tutta questa serie di meccanismi di esclusione, politici ed economici, nei confronti della classe popolare tedesca e italiana ha profondamente influito, in senso negativo, nel processo di formazione e di maturazione di una comune coscienza di classe. L’Alto Adige è un’isola nella quale le idee e i problemi politici e sociali arrivano quasi sempre in ritardo, onde lontane di realtà che si creano e che si agitano altrove: il mondo tedesco influenzato dall’austero conformismo di Vienna, il mondo italiano che riscopre uno o due anni dopo i movimenti d’opinione sorti a Roma o a Milano.
Così i primi veri scioperi in Alto Adige risalgono a poco più di un anno fa, per le pensioni e per le gabbie salariali; scioperi che sono riusciti all’inizio grazie agli sforzi congiunti di tutta la sinistra unita. E che alla fine, durante l’autunno caldo appena concluso, riuscivano quasi meccanicamente, a bacchetta, scarse le assemblee e le consultazioni di base. Così, ancora, la prima presa di posizione studentesca è avvenuta alla fine del 1968 (occupazione del liceo scientifico italiano di Bolzano), e la successiva elaborazione teorico pratica del movimento studentesco bolzanino ha ripercorso con un anno di ritardo tutte le fasi, ha riscoperto tutti i temi già acquisiti da tempo dal movimento studentesco nazionale. Con ritardo di molti mesi, infine, si sono formati in Alto Adige alcuni nuclei politici svincolati dai partiti tradizionali: i gruppi della nuova sinistra di Bolzano, Merano e Bressanone, legati alla professoressa Lidia Menapace, oltre alle due formazioni del PCDI, linea rossa e linea nera. E’ in questo quadro complesso e tuttavia in movimento che si è inserito il pacchetto. Le forze politiche che lo hanno voluto si apprestano ora a utilizzarlo secondo gli scherni, con le tattiche e i contenuti consueti della lotta politica tradizionale. I movimenti più spostati a sinistra lo accettano semplicemente come un dato di fatto scontato, uno strumento buono per qualsiasi tipo di azione, inidoneo, da solo, a provocare reali spinte di base. Una base, appunto, spaccata in due parti dalla barriera della stirpe, della cultura, della lingua diversa e spesso incomprensibile, ma uniformemente sfruttata e mortificata nei suoi diritti civili e sociali.
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