Giustizia, sciopero a Milano
Astrolabio 1968/46 – 24 novembre 1968
E’ bastato applicare la legge e la macchina della giustizia si è inceppata, l’agitazione dei magistrati e degli avvocati milanesi non poteva iniziare in modo più appropriato e significativo. Semiparalizzato ormai da anni per l’incompletezza dell’organico (giudici, cancellieri. personale d’ordine) e per l’insufficienza degli strumenti di lavoro anche più elementari (dalle macchine da scrivere ai magnetofoni ecc.), il Palazzo di Giustizia di Milano ha potuto in qualche modo continuare a funzionare grazie all’adozione di una pratica di ripiego (il cosiddetto “rito ambrosiano”) che consente lo svolgimento dei processi anche senza la presenza di tutti gli elementi che la legge stabilisce (rito formale). Così, per esempio, mancando in aula i cancellieri, sono gli avvocati stessi che redigono i verbali, con ciò rendendo possibile ai cancellieri di occuparsi di altri compiti che loro competono, come la tenuta dei registri, il rilascio dei certificati e così via.
Ritornando dunque all’osservanza scrupolosa del rito formale, i magistrati e gli avvocati milanesi hanno paralizzato completamente l’attività dei tribunali e delle preture: migliaia di processi rinviati in una settimana, ritardi e disguidi a catena nei servizi accessori. Ma non è che l’inizio. Ventitre altre sedi giudiziarie italiane (tra cui quelle di Genova, Torino, Venezia, Verona) hanno già annunciato la loro adesione, e altre forme di agitazione sono state studiate e messe in programma (interruzione dei processi penali, occupazione delle sedi giudiziarie ecc.). La profonda crisi in cui versa la giustizia italiana esce così clamorosamente dal chiuso delle sale di congressi e convegni, ove era stata troppo a lungo compressa, ed esplode nelle sue sedi più proprie: nei palazzi di giustizia e, di rimando, tra i responsabili di governo, tra l’opinione pubblica, in parlamento.
L’agitazione degli avvocati. L’azione era partita nel luglio scorso, sul!’onda forse delle agitazioni studentesche. Riunitisi in assemblea il giorno 5, gli avvocati più giovani aderenti al sindacato della categoria proclamarono uno sciopero di protesta, per sottolineare lo stato di profonda insoddisfazione, morale ed economica, della professione. Non fu un grande successo quanto a partecipazione: i cortei lungo i corridoi del Palazzo di Giustizia, i discorsi gridati col megafono in piedi sopra le sedie provocarono le proteste di paludati principi del foro, offesi nella loro dignità professionale da quelle manifestazioni “scomposte”, e il Consiglio dell’Ordine stesso rese pubblica la sua disapprovazione. Ma il fatto più importante fu che per la prima volta alcune centinaia di avvocati si trovarono a discutere insieme dei problemi comuni: messo da parte il tradizionale individualismo, superati alcuni radicati luoghi comuni (primo fra tutti quello che individuava nel magistrato il principale nemico dell’avvocato), la categoria forense si trovò unita almeno su certi punti essenziali: la crisi della professione come aspetto della più generale crisi del sistema giudiziario, la necessità di una lotta da portare avanti a livello politico.
Sulla base di questa prima presa di coscienza, spesso confusa e generica, l’agitazione riprendeva con maggiore consapevolezza dopo le ferie estive, e il 30 settembre una nuova assemblea presentava un vero e proprio ultimatum alle autorità competenti (Consiglio Superiore della Magistratura, Ministero di Giustizia, Ministero delle Finanze): o si provvedeva entro un mese alla soluzione delle più immediate e urgenti necessità, oppure gli avvocati si sarebbero rifiutati di applicare il rito ambrosiano: in altre parole la paralisi.
Accanto a richieste di carattere economico e corporativo (come il rispetto dell’esclusiva spettante agli avvocati per il patrocinio davanti alle commissioni tributarie, la copertura degli organici dei magistrati e del personale giudiziario ecc.), il documento approvato a grande maggioranza conteneva anche altre rivendicazioni di carattere generale: il riordinamento dei distretti giudiziari, onde trasferire nelle sedi più oberate di lavoro i magistrati oggi dispersi in uffici secondari; la defiscalizzazione del processo, ossia la riduzione delle spese oggi spettanti al cittadino (a cominciare da quelle relative alle cause di lavoro, di previdenza, di famiglia) salvo restando l’obiettivo finale di una giustizia gratuita; il riordinamento del patrocinio gratuito e della difesa d’ufficio; la immissione dei rappresentanti “laici” nei consigli giudiziari e l’istituzione immediata di commissioni paritetiche per la vigilanza sull’efficienza e produttività degli uffici giudiziari.
Il documento dei magistrati. Erano pur sempre misure tecniche, provvedimenti richiesti al solo scopo di rendere possibile lo svolgimento dell’attività giudiziaria, di renderla in qualche modo efficiente. Ma i delegati che si recano a Roma per illustrare il documento ai diretti destinatari non vengono neppure ricevuti. Il ministro Guardasigilli si limita a far pervenire a Milano vaghe promesse di interessamento e di buona volontà, e nel contempo blocca a Roma un’iniziativa di più spiccato valore politico, quella portata avanti dal Consiglio Superiore della Magistratura per l’istituzione di uno speciale comitato per la programmazione della giustizia e per i contatti col Governo e col Parlamento.
Questa nuova misura marcatamente autoritaria e conservatrice provoca a Milano una decisa presa di posizione dei magistrati di ogni corrente. “Questo atteggiamento del Ministro – dice il giudice Generoso Petrella nel corso dell’assemblea comune dell’8 novembre scorso – rientra nella tendenza generale a ridurre il Consiglio Superiore a un organo burocratico e ad attentare all’indipendenza della magistratura. La crisi della giustizia è quindi un problema di volontà politica”. E’ su questa linea politica, dunque, che l’assemblea decide di accordare il suo appoggio all’agitazione promossa dagli avvocati: “La soluzione della crisi – si legge nel documento dei magistrati – può venire solo da profonde modificazioni di struttura, concernenti oltre che l’ordinamento giudiziario anche i codici, per adeguare le leggi ai valori tutelati dagli articoli della Costituzione repubblicana che garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo, l’uguaglianza di fronte alla legge, il pieno sviluppo della persona umana, il diritto a una effettiva difesa in giudizio anche ai non abbienti. Il potere politico non solo non ha manifestato la volontà di provvedere a tali modificazioni strutturali, ma sì è dimostrato carente anche sul piano di quelle riforme parziali che avrebbero potuto attenuare i difetti della legislazione vigente, specie nei campi di maggiore incidenza sociale”.
Attuare la Costituzione. Ma è ancora una volta mostrando il suo volto pia autoritario e ipocrita che il governo interviene quando l’agitazione a Milano entra nella sua fase operativa (14 novembre): oltre ai magistrati e agli avvocati vi partecipano anche gli ufficiali giudiziari, gli assistenti sociali e i cancellieri. Ed è proprio a quest’ultima categoria dei cancellieri, la meno ideologizzata tra quelle in lotta. che il Ministro impone il suo ricatto, ultimo tentativo per bloccare l’agitazione in corso. “Ma come – si sentono dire i dirigenti romani dei cancellieri – voi vi muovete e protestate proprio ora che si stava preparando un provvedimento economico a vostro favore!”. Il 15 novembre a Milano, i cancellieri denunciano lo stato di agitazione, avendo la stessa assunto, secondo il loro comunicato, “scopi e finalità certamente estranei agli interessi della categoria. Con questo pretestuoso argomento e facendo leva sugli elementi ancora dissenzienti tra gli avvocati e i magistrati, il Ministro evidentemente spera di poter disarticolare l’unità appena istauratasi tra tutte le componenti degli “operatori del diritto”. Ma immediatamente il calcolo si rivela sbagliato, perché l’agitazione continua.
Certo le differenziazioni esistono, anche notevoli, nell’ambito del movimento, sia tra una categoria e l’altra, sia all’interno di ciascuna categoria. Ma anche tra gli avvocati, i più sospettosi dinanzi al termine “politico”, si è ormai affermato del tutto il convincimento che per ottenere qualcosa è necessario prendere iniziative che “facciano colpo” sull’opinione pubblica. Più matura e consapevole è, generalmente, la presa di coscienza dei magistrati, al di là di tutte le divisioni che pur sempre permangono a livello di associazioni nazionali. Di fronte al dilemma se applicare o meno una legge ritenuta intimamente ingiusta (e i casi di questo genere si presentano con sempre maggiore frequenza), il giudice ha scelto la strada dell’azione concreta. “Non possiamo più tacere né limitarci a semplici enunciazioni verbali – dice il dottor Petrella – dobbiamo essere in grado di imporre, col concorso dell’opinione pubblica, le riforme fondamentali. cioè quelle dell’ordinamento giudiziario e dei codici”. In questo senso i giudici fanno politica: si muovono perché la legge fondamentale dello Stato, la Costituzione, venga attuata.
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Fuoco a San Vittore
Astrolabio 1969/16 – 20 aprile 1969
Milano, aprile
Dopo 15 ore di battaglia, una bandiera bianca è stata issata sul tetto di San Vittore. Tutto un pomeriggio, tutta una notte di scontri, incendi, spari: poi la resa, alle 7 del mattino di martedì 15 aprile, l’aria densa di fumo e di lamenti, bruciante di gas lacrimogeni e di imprecazioni. Un’atmosfera eccitante da film western per il folto pubblico benpensante del Corriere e della televisione: oltre duemila tra poliziotti e carabinieri (venuti da Gorizia, Bolzano, Bologna, Torino ecc.) che vanno vigorosamente all’assalto; mille e duecento detenuti che si difendono con barricate, lanci di pietre e tegole dai tetti, pagliericci e coperte dati alle fiamme, saccheggi in cucina e in magazzino, presa in ostaggio di alcune guardie carcerarie: i buoni fuori contro i cattivi dentro, senza possibilità di equivoci, senza bisogno di giustificazioni, questa volta, all’uso della violenza. Poi le fotografie di rito: detenuti con le mani in alto contro il muro, detenuti trascinati via in catene, poliziotti feriti portati fuori in barella, celle devastate, porte e infissi frantumati, il carcere quasi completamente distrutto.
La fase dei negoziati. Solo tre giorni prima, il 12 aprile, in un’atmosfera che i quotidiani definivano “distesa” c’era stato un incontro tra il Procuratore della Repubblica e i rappresentanti dei detenuti. Nei giorni precedenti, essi già due volte si erano rifiutati di entrare in cella, dopo l'”aria”, per protesta: contro i buglioli, le bocche di lupo e i letti di contenzione; contro questo codice che prevede pene sproporzionate e assurde per i delitti contro la proprietà o l’autorità; contro questa giustizia che impone mesi e mesi di detenzione preventiva ai poveri, mentre lascia fuori, magari nel Libano, i truffatori di miliardi; contro la esasperante lentezza con cui di tutti questi problemi il governo si sta occupando.
Non era certo una protesta nuova per Milano, così come per tutte le altre carceri d’Italia. A Milano, anzi, si sta meglio che altrove: San Vittore ha quasi un secolo di vita, ma almeno è un carcere, non un monastero o un castello adibito a prigione, come il Maschio di Volterra, il Carrubbara di Messina o il Convento di Perugia. Sei raggi: il primo per i “particolari” (sacerdoti, professionisti, invertiti), il secondo con il centro di osservazione e i servizi di assistenza, il terzo per i reclusi sotto i 25 anni, il quarto con l’infermeria sussidiaria, il quinto per gli adulti, il sesto per i detenuti in transito. Celle da 2 metri per 1,60, tre reclusi per ogni cella, la bocca di lupo incassata nel soffitto per prendere luce, un bugliolo in tre dove “deporre i rifiuti organici”. Colloquio coi famigliari una volta ogni 15 giorni, punizioni severe in caso di insubordinazione, 10 mila lire al mese per i lavori all’interno del carcere (netturbini, elettricisti, calzolai ecc.).
Dal Procuratore della Repubblica i detenuti si sentono fare le promesse di sempre circa il problema dei colloqui e dei servizi igienici; ma non si parli di riduzioni delle pene (per esempio per furto e oltraggio), di concessione di licenze straordinarie, o di abolizione della censura sulla posta: sono questioni di competenza superiore, riforme che spettano al governo, almeno 10 anni ancora da aspettare. I rappresentanti dei detenuti sono “educatissimi” durante l’incontro col magistrato: la delega a trattare che in modo informale hanno ricevuto dai compagni di cella se la sono guadagnata sulla base di precisi rapporti di forza: sono i “delinquenti” più geniali o quelli più ricchi. Ma dietro le buone maniere essi riportano in cella tutta la loro rabbia e tutta la disperazione dei compagni. Malgrado la censura e le sbarre, il carcere è un luogo aperto alle notizie, alle idee di tutti i tipi. Le portano dentro le guardie, gli avvocati, i detenuti che vanno al palazzo di giusti1ia per il processo: le trasmettono di cella in cella i reclusi-lavoratori, in maniera capillare e in tempi brevissimi. Così anche i detenuti cominciano a capire che essi stessi si devono muovere per migliorare la loro condizione, che spetta anche a loro di far sì che la carta costituzionale abbia un valore anche in prigione: ”Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27).
Bruciare per migliorare. Le notizie dalle carceri Nuove di Torino e Marassi di Genova fanno saltare il coperchio anche a Milano. Alle 4 del pomeriggio di lunedì 14 i reclusi anziani del quinto raggio iniziano la rivolta, al grido delle parole d’ordine comuni a Torino e a Genova: riforma dei codici, rispetto dell’uomo. Nel giro di pochi minuti le guardie carcerarie vengono sopraffatte, mentre il movimento si espande in tutti gli altri raggi. Alle 16,30 ormai tutto il carcere è in mano ai rivoltosi, che sbarrano i cancelli d’ingresso e li fortificano con barricate, sfondano i finestroni in fondo ai raggi e salgono sul tetto, mentre si alza il primo fumo delle suppellettili bruciate. E’ una serata serena ma fredda, molto ventosa, e la televisione si affretta a mostrare lo spettacolo a tutti gli italiani: attorno alle mura gli elmi e i fucili dei poliziotti; in alto i rivoltosi che, aggrappati alle sbarre dei finestroni, gridano le loro storie alla gente radunata sulla strada, o che dal colmo dei tetti lanciano tegole e invettive: “L’unico modo per migliorare la nostra prigione è quello di bruciarla!”
Verso sera lo schieramento attorno a San Vittore è imponente. Rinforzi di polizia e carabinieri sono stati radunati da tutta l’Italia settentrionale: affollano a turno i bar della zona, insieme con i parenti dei detenuti, cappuccio e brioche dopo 15 ore di servizio senza mangiare per la visita di Saragat alla Fiera. In piazza Filangeri, proprio di fronte all’entrata del carcere, i minorenni della casa di correzione Beccaria lanciano dalle finestre sbarrate panini piatti e bicchieri, e poi una serie di messaggi, scritti a matita su fogli di quaderno: “da oggi sciopero della fame”, “siamo tutti uniti con voi”, “giù le mani dai minorenni”, “la morte viene data troppo spesso”.
Intanto sono entrati a San Vittore i primi agenti: ai lanci di tegole, inferriate e sassi fanno eco secche raffiche ripetute, alle 21,45, alle 22, alle 22,10, alle 23,10 e poi avanti per tutta la notte. La luce all’interno è stata tolta, si manovrano gli idranti dei pompieri per raggiungere i piccoli focolai di fiamme che escono da finestre e dal tetto. Il vento riversa il fumo e il gas dei lacrimogeni sulla gente che ancora si assiepa dietro il cordone di polizia. Lo spettacolo prosegue fino all’alba, cruento: oltre alle decine di contusi, un centinaio di feriti in modo serio, di cui una trentina tra gli agenti.
Il condannato irrecuperabile. Le carceri che non rieducano, che anzi abbrutiscono e mortificano la dignità degli uomini in esse internati, hanno preso dunque a bruciare: portati a sovraffollare altre celle nelle prigioni di tutta Italia, i “delinquenti rivoltosi” di Milano e Torino hanno dimostrato per tutti i centomila delinquenti che ogni anno frequentano gli istituti di pena della penisola. E’ questa una categoria funzionale al sistema, fatta per lo più di ladruncoli, biscazzieri, contrabbandieri, protettori di prostitute, piccoli truffatori e così via; sono “individui di carattere labile”, affetti spesso da malattie “professionali” (lue, tubercolosi, epilessia ecc.): tutte caratteristiche che li fanno definire “irrecuperabili”. Ma è questo sistema che li vuole così, che molto spesso, attraverso queste strutture carcerarie, trasforma un ladro d’automobili in un condannato a vita, un “irrecuperabile” appunto.
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